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Rifondazione : quella prima svolta chiamata rottura
Publie le martedì 22 marzo 2005 par Open-PublishingDazibao Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi Storia
La rifondazione di Bertinotti atto primo: dal sodalizio con Cossutta in nome dell’identità allo strappo con Prodi in nome dell’autonomia
di COSIMO ROSSI
«Dove saremmo oggi senza quelle che avete chiamato svolte?», si accalorava Fausto Bertinotti concludendo il congresso veneziano di Rifondazione comunista: il sesto dalla nascita del partito nel 1991, il quinto del principato bertinottiano. Perché una «svolta» appresso all’altra, con le ultime assise si completa effettivamente un ciclo di rifondazione del partito bertinottiano. Di vera e propria «svolta» dunque si tratta, come la definiscono due che se ne intendono diversamente bene quali Achille Occhetto e Massimo D’Alema; benché il leader di Rifondazione preferisca chiamarla «ricerca». Sia come sia, è un percorso che riconduce a un nuovo inizio: che è un nuovo governo Prodi.
Ma al termine di un decennio lungo in quale il comunismo negli armadi di Rifondazione si è sottoposto a un completo cambio di stagione. Era un partito del «no» (allo scioglimento del Pci) identificato nel garrire delle rosse bandiere; è passato attraverso non solo la teoria ma l’esercizio delle «due sinistre» e una rottura algida con il primo governo Prodi; ha incontrato nuovi movimenti e diversi compagni di strada in libera uscita dalla crisi verticale della governace progressista (l’Ulivo mondiale); fino a rimettere finalmente al mondo le proprie certezze ideologiche. Lungo questo decennale giro di giostra, di (s)volta in (s)volta il Prc ha perso per strada pezzi interi della propria classe politica; cercando di rigenerarsi con la duplice costruzione di una nuova leva interna e di nuove relazioni intorno.
«La coppia più bella del mondo»
Quando, nell’ottobre del 1993, Bertinotti si iscrisse al Prc per divenirne pochi mesi dopo il leader, la sua ascesa direttamente al vertice rappresentava il punto di neutralità all’interno di un partito diviso per quasi inconciliabili culture politiche: dal Pdup, a Dp, al cossuttismo, al totzkysmo, al berlinguerismo ibernato e via dicendo. E le sue doti televisive ancora non si riflettevano con altrettanto personalismo interno, per quanto l’uomo fosse predisposto fin dai tempi del sindacato. Ma un partito, e un partito con una propensione ortodossa da vecchio Pci e insieme un frazionismo da sinistra gruppettara, è un’altra cosa. «Potremmo inserire Giacinto (Botti, ndr) nel comitato politico?», ricorda un dirigente ancora in carica che Bertinotti quasi si scusava con lo stato maggiore. Per sentirsi rispondere: «Guarda che il segretario sei tu».
Bertinotti eredita dal dimissionato Sergio Garavini un partito che all’ultima tornata elettorale con il vecchio sistema proporzionale (quella del 1992), alla camera ha raccolto 2.202.574 voti (il 5,6 per cento) e 35 seggi. La sua segreteria anti-ortodossa, calibrata dall’asse Cossutta-Magri anche per agevolare la partecipazione alla coalizione dei Progressisti, porterà il Prc avanti di poco alle elezioni del 1994, le prime con l’uninominale maggioritario: 2.334.029 di voti (pari al 6 per cento) e 39 seggi.
Forte della fulminante celebrazione della «coppia più bella del mondo» con il presidente Armando Cossutta, il segretario guida subito Rifondazione comunista oltre il congresso (il secondo) che lo ha eletto: in cui si sprecavano i giudizi sprezzanti sul Pds occhettiano ma si confermava l’intenzione di un accordo «programmatico» con il resto della sinistra entro il quale approfondire l’elaborazione dell’alternativa. Prende piede il postulato delle «due sinistre» - specchio della riflessione di Marco Revelli sulle «due destre», in cui a quella tradizionale si aggiunge la sinistra liberale - e della loro inconciliabilità.
Quelli che baciarono il rospo
Alla caduta del primo governo Berlusconi i diarchi dicono no al governo Dini, il «rospo» baciato da molta sinistra come salvagente da un probabile nuovo trionfo elettorale del cavaliere: respingono anche l’ipotesi di un’astensione in funzione antidestre. Parte consistente dei gruppi parlamentari vota però a favore del governo. Una scelta condivisa da alcuni esponenti di spicco dell’attuale maggioranza bertinottiana (da Nichi Vendola a Franco Giordano), talmente forte da frenare una normalizzazione sanzionatoria del dissenso. Ma che porterà anche al primo scisma, prevalentemente da parte dei magriani come dell’area vicina a Garavini.
Rifondazione «è una steppa arida, e Bertinotti l’ha incendiata», osserveranno i transfughi a proposito di quello che si confermerà per tutta la prima stagione del Prc un’allergia a ogni contaminazione: coltivata tanto dal segretario che dal presidente quasi come svezzamento di una creatura troppo fragile rispetto alle intemperie esterne.
Allo stesso tempo, quella rottura con il senso di responsabilità nazionale - che è stato del Pci - è un primo, confuso passaggio della rifondazione bertinottiana. Incompiuto, perché lo stesso Bertinotti deporrà le armi nel momento in cui Dini fisserà - rivolto a lui nell’aula di Montecitorio - una scadenza per il proprio esecutivo. Come strappi successivi operati dal segretario, sarà agevolato anche dal fatto che altri (coloro che voteranno la fiducia a Dini) tendono comunque una rete protettiva. Come per altre rotture, Bertinotti si curerà di aumentarne il frastuono ma anche del fatto che non siano irreparabili. Forse in virtù di questo, come per ragion di consolidamento della creatura partito che sente propria, Cossutta sostiene il segretario: dando voce ai suoi animosi strali verso i dissidenti attraverso Liberazione (allora diretta da Oliviero Diliberto), mentre i suoi fedelissimi vengono cooptati in segreteria nel turn over dei transfughi.
La travolgente desistenza
Nel frattempo, del resto, Rifondazione è impegnata - su pressing dell’area del presidente - nella stagione dei sindaci a partecipare alle alleanze di governo delle città. E’ anche il lasciapassare per l’accordo di desistenza con l’Ulivo, la formula che di per sé descriva una differenza inconciliabile. Nel giugno del 1995 Bertinotti e Cossutta respingono la proposta di programma comune perorata da Prodi. Il resto del centrosinistra, che vagheggia differentemente la grande sinistra socialdemocratica (con D’Alema) e il partito democratico (con Prodi e Veltroni), non se ne duole più di tanto. Mentre per Rifondazione si apre un vasto banco di pesca elettorale alla sinistra del Pds. Risultato: alle elezioni dell’aprile 1996 il Prc prende sul proporzionale della camera ben 3.215.960 voti (pari all’8,6 per cento) e 35 seggi. Rifondazione vota la fiducia, ma resta fuori dall’esecutivo.
Si apre subito dopo il terzo congresso. «Autonomia e unità», è la parola d’ordine che sancisce il paradigma delle «due sinistre» e l’ispirazione (scolastica) del Prc a svolgere un ruolo egemone su quella antagonista; ma anche la brutalizzazione (pure scolastica) delle minoranze nel nome della «lotta al settarismo». Gli slogan bifronti diventeranno una caratteristica del partito bertinottino: tra contraddittorietà postmoderna e doppiezza tradizionale, rotte solo dagli imperativi singolari per fronteggiare i momenti peggiori (come dopo il la crisi con Prodi e la scissione del 98).
Il partito di massa che non c'è
L'anno successivo è la volta della prima conferenza di organizzazione del Prc, il cui significativo consenso elettorale non trova affatto corrispondenza nel corpo militante. I circoli sono rissosi e ripiegati su loro stessi, spesso archeocomunisti: la ricetta fondata sulla costruzione di nuove strutture intermedie tra partito e società aperte anche a non iscritti rappresenta un altro tassello del percorso bertinottiano. Il «partito antagonista di massa» (altro concetto duplice) è un ibrido che tiene insieme l'organizzativismo cossuttiano e il nuovismo del segretario, ma sempre attribuendo il ruolo d'«avanguardia» al partito con la p maiuscola, al gruppo dirigente più o meno diffuso. Il varo del soggetto giovanile si rivelerà successivamente l'unica mossa organizzativa efficace (probabilmente in quanto non si edificherà secondo i canoni tradizionali) da parte di un partito postnovecentesco ma ancora zavorrato di feticci, simulacro del «partito di massa», in cui non c'è proporzione né coerenza tra il consenso e il radicamento tradizionalmente inteso.
Nel frattempo si acuisce la tensione con il governo. A fine
97 si arriva al rischio di crisi sulla Finanziaria, che Bertinotti non vuole votare; tanto che il 10 ottobre Prodi sale al Quirinale per rimettere il mandato. E’ il braccio di ferro sulle 35 ore, strappate solo virtualmente dal Prc. Ma è ancor più il braccio di ferro interno al partito. Cossutta non si capacita delle leggerezza con cui Bertinotti coltiva il rapporto negoziale con l’esecutivo: il presidente fonda il suo ragionamento realista sull’azione politica del partito all’interno del sistema di alleanze e sul consenso elettorale da trarne nelle aree contigue di sinistra. Bertinotti sente invece sfuggire il rapporto con lo spirito di rifiuto che anima il Prc, concentrandosi soprattutto sulla tenuta del corpo militante e del ceto dirigente: «Potevamo implodere», osserverà in quei giorni conteggiando invece un aumento degli iscritti. Nella coltivazione del corpo istintuale di Rifondazione prima che della sua mente, paradossalmente Bertinotti si rivela a tratti più cossuttiano di Cossutta. Il braccio di ferro si concluderà con la segreteria che (il 13 ottobre) dà mandato pieno al leader di proseguire il negoziato con Prodi, mettendo in minoranza la componente cossuttiana, dalla quale si stacca l’area dell’Ernesto. E con essa le casse del partito.
La mano vincente del segretario
Rientrata la crisi di governo, Cossutta e i suoi stappano champagne di fronte al segretario scuoro in volto, tuttavia Bertinotti ha mosso il passo avanti definitivo per la conquista piena del partito, in termini organizzativi e di cassa: si è garantito la fedeltà anche di ex cossuttiani che gli sarà determinante per reggere la successiva rottura con Prodi che è già scritta nelle cose. Anche se sul piano della rappresentanza istituzionale da sempre gli uomini del presidente sono meglio attrezzati.
A livello interno, insomma, la rottura risale al 1997: l’anno successivo servirà solo a farla fermentare meglio. Tanto da riflettersi anche sulla crisi che si apre a Liberazione, tra la fine del 97 e il maggio del
98, e che si risolverà con la paradossale iscrizione alla Fieg della società editrice del Prc, facendosi cioè «padrona».
Bertinotti e i suoi sentono vacillare l’autonomia del partito, la sua soggettività dentro l’alleanza con la coalizione ulivista. E stringono il pugno. E’ un riflesso identitario anche brutale rispetto all’omologazione con l’Ulivo, ma che al contempo legge i cedimenti dei leader europei rispetto alla stessa socialdemocrazia tradizionale, criticandone la deriva, giudicata incontrastabile, e coltivando ogni radicalità antiliberista. Bertinotti percepisce la strada senza uscita del centrosinistra, benché sia a secco di altri sbocchi. Cossutta se ne preoccupa nel quadro nazionale: sente la minaccia berlusconiana e domanda al partito di rimanere spendibile dentro una coalizione nel segno della continuità con la tradizione del Pci. Sta qui discrimine storico e politico tra Bertinotti e chi «non farà mai cadere un governo di sinistra», come argomentava ancora pochi giorni fa Oliviero Diliberto. La maggioranza parlamentare è infatti composta da un arco di forze che Bertinotti giudica irrecuperabile a un’alternativa al liberismo. Le stesso forze tuttavia governano zone importanti e tradizionali del territorio. Perciò i cossuttiani riuniscono tutti gli amministratori locali del partito nel giugno 1998 a Bellaria in un ultimo tentativo di persuadere il leader che rompere con il governo di centrosinistra è sbagliato e pericoloso.
La fine del governo Prodi
Ma il quadro è effettivamente saltato, anche per gli scontri interni all’Ulivo soggetto politico (di Prodi e Veltroni) rispetto all’Ulivo cartello di partiti (di D’Alema), al centrosinistra con il trattino rispetto a quello senza. Pressata dal dogma del liberismo e dalle compatibilità finanziarie - con le annesse istituzioni sovranazionali - sta vacillando tutta una politica: la speranza che si portavano dietro i successi di Clinton e Blair piuttosto che Jospin e Schröder. E in Italia lo scontro si è spostato sul timone, o quantomeno la cabina di regia, di quel «capitalismo bentemperato» (come lo definiva Prodi): tra la tradizione cattolico-democratica e quella socialdemocratica che incalza, e senza che nessuno - se non poche isolate cassandre - si ponga effettivamente il problema di un passo avanti complessivo.
Cade così il governo Prodi, lasciando inevasa una cambiale di guerra (quella nei Balcani) che dovrà onorare il primo premier postcomunistra, Massimo D’Alema, con il sostegno amaro del del Pdci e dei Verdi. Ma Bertinotti non rompe solo sulla guerra (che sarà l’anno successivo il cavallo di battaglia della débâcle alle europee): avvia da luglio il percorso di fuoriuscita dalla maggioranza attraverso la formula (ancora una volta duplice) «svolta o rottura», chiedendo un cambio di rotta in senso pubblico (sono anni in cui privatizzare è una sorta di dovere morale) della politica economica.
La scissione con il salvagente
Di nuovo, però, Bertinotti agisce costruendosi anche un ombrello protettivo: questa volta duplice. L’area cossuttiana - di cui ha di fatto preso le redini Diliberto - lascerà il partito fondando il Pdci con i suoi parlamentari, ma verrà ugualmente a mancare un voto sul pallottoliere tenuto da Arturo Parisi per calcolare la fiducia al governo Prodi. Tuttavia il leader del Prc ha agito al riparo anche del semestre bianco: ovvero di uno scioglimento delle camere per convocare nuove elezioni che presumibilmente avrebbero annientato i consensi e la rappresentanza del Prc, pregiudicandone irrimediabilmente il futuro. Persa l’esperienza dei quadri e degli eletti cossuttiani, la creatura partito affronta la crisi di sopravvivenza fisica più difficile, ma che forse è anche l’ultima prima di volgere finalmente l’attenzione fuori da sé.
Di nuovo della rottura si cerca il maggior fragore più che l’irreparabilità. Ma oltre che di una rottura si tratta di una vera e propria «svolta». E’ infatti la cesura definitiva con il totem del governo e del frontismo. E’ l’ancora discussa presa d’atto del fallimento del governo Prodi, che paradossalmente è anche l’assunzione del sistema bipolare maggioritario in cui l’esercizio del negoziato e dell’«egemonia» non si misura più sulle quote proporzionali di rappresentanza istituzionale: un tema che riproporranno a breve i movimenti e che resta alquanto da investigare, per quanto ancora oggi Bertinotti faccia professione di proporzionalismo. Il Prc ci arriva attraverso una scissione lacerante, traboccante di orgoglio di partito e risentimento verso gli ex compagni, imputato della bancarotta politica del governo Prodi dal popolo amareggiato della sinistra: mai così chiuso in se stesso, e allo stesso tempo mai così in mare aperto. (1 - continua)
La rifondazione di Bertinoti atto secondo: dal «rompere la gabbia del centrosinistra» alla nonviolenza come rottura con il leninismo e paradigma di democrazia, attraverso cui si riannodano le relazioni con il resto della sinistra
di COSIMO ROSSI
Che la rifondazione cominci con la scissione del Pdci, nell’ultimo lustro è divenuto il primo comandamento del partito bertinottiano. E’ un dogma, che corrisponde al vero soprattutto in quanto il Prc ha effettivamente rischiato l’estinzione: cosicché chiudersi a riccio è diventato un moto naturale di sopravvivenza. Il prezzo della rottura con il governo Prodi, del resto, si presenta tanto più salato quanto il Prc ha fatto deflagrare un’esperienza che il sentire comune dell’elettorato di centrosinistra viveva come speranza concreta di trasformazione. I transfughi del Pdci pongono questo tema in coerenza con la tradizione comunista. Coloro che sono su posizioni non dissimili ma non li seguono - e che oggi rappresentano una parte dell’area dell’Ernesto - di quella stessa cultura privilegiano la ragion di partito a quella di governo e di frontismo. Il risentimento della gente di sinistra va invece oltre. Ma intorno le lancette girano più veloci di quanto non prevedessero i partiti e anche la clessidra di Bertinotti. E’ l’inizio del 1999, anno della guerra in Kosovo, della scadenza del mandato presidenziale di Oscar Luigi Scalfaro e delle elezioni europee.
Sfuma la carta falsa del Quirinale
Protetto dal semestre bianco, che esclude la possibilità di elezioni in cui l’Ulivo ridurrebbe ai minimi termini il Prc, il segretario conta di avere nel mazzo la carta per rientrare nei giochi attraverso l’elezione del presidente. Si dice che potrebbe trattarsi di Prodi, che invece sarà parcheggiato alla guida della commissione europea: tra le varianti del gioco di Bertinotti, l’approdo dell’ex premier al colle con il sostegno delle sinistre unite potrebbe riaprire il dialogo con il governo. Ma la maggioranza del primo governo di un postcomunista, quello di Massimo D’Alema, è retta dal trattino chiesto da Francesco Cossiga al centrosinistra. La candidatura del professore atterra dunque ben prima che il Quirinale sia appannaggio di Carlo Azeglio Ciampi - sul quale oggi Bertinotti si ricrede ma che non votò rabbiosamente -; tanto da far capire da subito che gli effetti della crisi saranno più profondi e duraturi del previsto.
La guerra che scoppia il 24 marzo - già autorizzata dal governo Prodi - non fa che confermarlo: rappresenta la presa d’atto del fallimento europeo nei Balcani, l’ultima prova di interventismo statunitense nel vecchio continente prima di fissare lo sguardo all’oriente non solo medio. Per D’Alema si tratta di una sorta di nemesi storica, mentre in parlamento l’allora capogruppo Fabio Mussi patisce in tutti i sensi a tenere i deputati ds nei ranghi. Pdci e Verdi si esprimo contro l’intervento, ma restano nel consiglio dei ministri. Rifondazione strepita. Non insieme alla Cgil ma alla Fiom, con cui pure i rapporti sono raffreddati dalla rottura con Prodi, quando due pullman di tute blu bresciane andarono da Bertinotti per farlo ricredere.
Il leader del Prc effettua una torsione movimentista che in parte si presagiva e che trova terreno fertile in una parte di cultura non pci presente nel partito. Anche perché la scissione ha colpito in modo significativo il tessuto dei quadri intermedi e di base che reggeva il territorio rappresentando il collante organizzativo del partito. Con lo scisma cossuttiano, in altre parole, il feticcio del «partito di massa» si dissolve per sempre.
La protesta nell’urna europea
Ancora una volta la risposta bertinottiana è duplice. Da un lato il ricambio premia le nuove leve (è il caso di molti giovani segretari di federazione) e spinge sul pedale movimentista per pompare ossigeno nelle acque bassissime in cui nuota il Prc. Dall’altro lato c’è un drastico giro di vite delle regole e dell’organizzazione interne.
Allo scopo di varare il riassetto interno, si svolge a marzo il quarto congresso in edizione straordinaria. «Un’alternativa di società» è la parola d’ordine delle assise in cui la composita maggioranza bertinottiana (di cui fanno parte anche l’area dell’Ernesto e quella di Maitan) si fronteggia con la minoranza di sinistra. La scelta di rottura con il centrosinistra è assunta, e insieme ad essa quella di un’impraticabilità dell’alternativa attraverso il sistema politico: il che da un lato sposta l’attenzione verso la società, ma dall’altro propone una messa in discussione intransigente del bipolarismo da scardinare.
Anche se la partita vera del congresso straordinario si gioca tutta negli equilibri interni alla maggioranza, prima spia delle differenze che il congresso di Venezia porterà in luce: tanto che tutti gli organismi elettivi lievitano significativamente per spinta trasversale di cordate territoriali e correntizie.
Bertinotti ne esce più che mai leader, e tuttavia nient’affatto immune dal condizionamento delle altre componenti di maggioranza. E’ comunque sul solo segretario che si incentra la campagna elettorale delle europee: sulla base della posizione contro la guerra in Kosovo - tanto più vantaggiosa in quanto le altre voci critiche di Pdci e Verdi hanno continuato ad appoggiare il governo - ci si aspetta un 5-6 per cento che fughi i dubbi sulla sopravvivenza politica del Prc indotti dalla crisi con Prodi. Invece è un tracollo. Rifondazione paga nell’urna la rabbia del popolo di sinistra: il magro 4,3 per cento viene drenato con 1.515.328 voti. Secondo tutti gli analisti, i voti in uscita vanno in parte al Pdci (2 per cento) ma in parte maggiore verso il ritiro che caratterizza e inaridisce la seconda fase del centrosinistra ulivista: quella in cui di fronte a una minaccia di sciopero generale da parte della Cgil palazzo Chigi controminacciava le dimissioni dell’esecutivo.
Un esito «pesantemente negativo», riconosce Bertinotti. E che accelera la riflessione sull’inadeguatezza dell’organizzazione partito rispetto alle trasformazioni sociali, alla segmentazione ma anche alla formazione di coscienze critiche autonome, di fine millennio. Come del resto dimostra il successo dichiaratamente anti-partito di Emma Bonino (con un clamoroso 8,5 per cento che farà impazzire tutti).
La spinta essenziale del vento di Seattle
Forse più che dalla scissione cossuttiana, la «ricerca» bertinottia parte da quello schiaffo elettorale. Si convoca per il febbraio del 2000 una conferenza di organizzazione, ma le ricette per una riaggregazione politica dei mille rivoli della critica e della ribellione contemporanei, e sempre più refrattari alla dimensione ideologica, non sfornano nulla. Benché a dicembre del 1999 il «vento di Seattle» porti in dono il nuovo ingrediente essenziale: la critica alla globalizzazione neoliberista che porrebbe fine alla storia, esercitata nel rifiuto di un’ideologismo speculare e nel cuore liberal dell’Impero.
Ricomincia di qui il confronto interno alla maggioranza bertinottiana che in due congressi porta fino a oggi. L’esigenza di una soluzione di continuità con «il comunismo novecentesco», che apra i cancelli arrugginiti al protagonismo delle nuove generazioni che percepiscono quella storia come un mausoleo oppressivo, viene messa nero su bianco da Bertinotti in un libro intervista con Alfonso Gianni. Prende corpo il vagheggiamento della «sinistra di alternativa», ma nelle forme incompiute che ancora oggi ne caratterizzano i profili da più parti proposti, perché allo stesso tempo si conferma l’irrinunciabilità alla forma partito. Tenere insieme questa dicotomia è tuttora una delle ostinate incoerenze bertinottiane: altrettanto postmoderna quanto devota a totem troppo cari.
Del resto, il partito deve ancora superare l’ultima prova di sopravvivenza: le politiche del 2001 alle quali si presenta diviso dal centrosinistra, e quindi sotto la minaccia del «voto utile» oltre che del non voto punitivo. Si sceglie la formula della «non belligeranza»: i candidati del Prc non si presentano nei collegi della camera per non ostacolare quelli ulivisti, la rappresentanza è limitata alla quota proporzionale e ai senatori. Il prezzo è ancora salato: 1.868.113 voti consentono il raggiungimento del 5 per cento. Ma il milione e 300 mila voti in meno rispetto a cinque anni prima sono un travaso duplice rispetto ai 600 mila andati al Pdci.
Genova riapre il confronto interno
Il confronto interno si rianima alla vigilia del G8 di Genova e della mobilitazione, non soffocata nonostante il sangue, del Social forum. Da Porto Alegre spira forte e calda la sperimentazione «partecipativa» su cui sta investendo fortemente l’area bertinottiana, organizzazione giovanile in testa, secondo un protocollo di presenza paritetica del partito nel movimento. E’ il terreno entro il quale cominciano a riannodarsi anche i fili delle relazioni a sinistra: con l’Arci piuttosto che con i Verdi o le sinistre Ds, con la Fiom e poi la Cgil. Anche nello stivale, del resto, la ripresa del conflitto e del Prc spira dal Mezzogiorno: a marzo del 2001 c’è stato il Global forum sull’informazione a Napoli (malmenato dal governo ulivista); ma è anche l’anno in cui si registra l’incremento elettorale che dalle regioni meridionali favorisce il superamento dello sbarramento e il contemporaneo aumento delle iscrizioni in quell’area. Verrà dall’esperienza dirigente su quei territori - e poi dalle lotte di Melfi, Scanzano, Acerra - anche parte consistente della nuova leva.
Bertinotti indica, non senza l’enfasi che gli è propria, il «movimento dei movimenti» come nuovo soggetto della trasformazione. La presa di distanza dell’Ernesto viene esplicitato a luglio proprio attraverso le colonne del manifesto nel segno di una riproposizione della centralità della contraddizione capitale-lavoro messa in discussione dal sirene movimentiste del segretario, aprendo di fatto la corsa verso il quinto congresso dell’anno successivo. Il segretario controreplica annunciando una «svolta a sinistra» del modello organizzativo del partito che deve aprirsi alle nuove istanze, attaccando «conservatorismi» e «residui di stalinismo» rispetto ai quali chiede un taglio drastico, aprendo di conseguenza alla legittimazione del dissenso interno che sarà sancita dal congresso.
Lo scontro si ripropone anche nelle votazioni congressuali. L’analisi del segretario chiude anche sul piano teorico con il secolo passato, con l’idea leninista della presa del potere da parte di un’avanguardia, rimettendosi alla dinamica dei movimenti sociali. «Rompere la gabbia del centrosinistra» diventa la premessa necessaria a una rigenerazione politica e sociale che favorisca la formazione della imprecisata «sinistra di alternativa». Ma insieme è anche rompere con lo stalinismo, con il partito identitario, con il principato esclusivo della controddizione capitale-lavoro e con come è stata declinata nel Pci. E con già un embrione di riflessione sulla nonviolenza, innescata dalle polemiche suscitate da una manifestazione per la Palestina aperta da un gruppo che indossava finte cinture esplosive. Riletto oggi, era già un canovaccio del recente congresso. Riletti oggi, i risultati delle votazioni qualificanti di quel congresso sono stupefacenti per l’analogia con Venezia: l’area bertinottiana al 59 per cento, l’Ernesto intorno al 29, la minoranza trotkysta al 13.
E’ sulla base di quell’impianto, oggi riproposto anche a suffragio della partecipazione all’Unione prodiana, che nell’area del segretario si osserva come con le minoranze di sinistra il percorso sia «comune per un lungo tratto e poi si arresti alla soglia di palazzo Chigi», mentre con l’Ernesto la differenziazione sia di fondo, a prescindere dal tema del governo.
Per certi versi si potrebbe dunque rilevare che ben poco sia cambiato negli ultimi due anni e mezzo: se non nella militarizzazione interna delle rispettive componenti per affrontare le assise veneziane che ha perciò reso più visibili le differenze. Anche sul piano della divisione geografica dei rapporti di forza che tengono sotto tiro la leadership: Bertinotti trae il consenso soprattutto da Campania, Puglia, Sicilia, Lazio e Toscana; le roccaforti dell’Ernesto sono Calabria e Piemonte; l’Emilia è spaccata come una mela; sebbene si equivalgono, la minoranza di Erre è più forte nelle aree metropolitane e quella di Ferrando sul territorio diffuso. Lo spirito di solidarietà congressuale, poi, non oscura il fatto che nella stessa area bertinottiana convivano culture differenti (benché non più rapportabili alle sigle di provenienza), legittime aspirazioni personali e conflittualità generazionali o tradizionali.
Il dogma politico della nonviolenza
E’ cambiato però il quadro esterno. La «superpotenza» del movimento della pace ha sospinto tutte le forze del centrosinistra e Prodi a schierarsi contro la guerra in Iraq e alla ridislocazione di pezzi interi del ceto politico. Anche perché la minaccia rappresentata da Sergio Cofferati - come interlocutore e leader politico di quei processi - si è auto disennescata in virtù dell’incapacità da parte dell’ex leader della Cgil di uscire delle propria scolastica e delle proprie obbedienze. La vittoria in Spagna di Zapatero ha rafforzato la temperatura del vento critico rispetto alle virtù taumaturgiche del dominio occidentale (più che del mercato), e la stessa aria continua a spirare dal Latinoamerica.
Tra un congresso e l’altro anche la rifondazione bertinottiana ha mosso ulteriori passi, compreso uno strappo significativo con una parte dei movimenti Disobbedienti a partire dalla questione della nonviolenza e non solo, visto lo scalzamento di Nunzio D’Erme dagli scranni di Strasburgo che in qualche modo non aveva demeritato considerate il contributo di preferenze disobbedienti nel risultato delle europee 2004, dove il Prc riguadagna il 6,2 per cento e quasi 2 milioni di voti. Battessimo di successo per il nuovo contenitore della Sinistra europea, fortemente voluto fuori dai soli confini comunisti e come sperimentazione di formule aggregative non identitarie.
Il dogma della nonviolenza resta però la chiave di volta principale per leggere quasi tutto il congresso veneziano. Il proclama della diserzione rivolto dal segretario in primo luogo al proprio partito - «Venite a prendermi perché io armi non ne ho» - più che una svolta in questo caso condensa in sé una rottura: che non riguarda certo l’unità di misura della violenza quanto le formule della democrazia, cioè la cesura definitiva con l’idea leninista della avanguardie, con la «sopraffazione» delle minoranze organizzate rispetto alla prevalenza condivisa; e perciò, in parte, anche con i veti delle legittimate (e quasi incensate) minoranze interne alle maggioranze.
La forza vera che sta fuori
L’esercizio nonviolento è anche quello che ha riaperto i canali del dialogo con il resto del centrosinistra, che ha cioè delimitato la discriminante del rifiuto della guerra e dell’opposizione a chi la fa. Sempre intorno a quel ragionamento, dunque, sul piano delle alleanze politiche tramonta l’impostazione negoziale di matrice proporzionalista e si apre il sipario sull’esperimento delle primarie - con l’azzeccato successo di Vendola in Puglia - e della costruzione comune complessiva del programma (mentre le tentazioni neocentriste che animano anche settori della Fed riformista aprono di fatto la «gabbia del centrosinistra»).
E’ la definitiva lacerazione con un’eredità ingombrante della storia comunista: anche nell’assunzione di argomenti della sinistra radicale degli anni 60 e
70 - sempre deplorati dal Pci - rispetto al tema del lavoro e del non lavoro com’era già stato in rapporto ai movimenti. Del resto, è anche il compimento di una svolta cauterizzata dalla riflessione critica sulla storia comunista realizzata approfondita insieme a Pietro Ingrao. Che proprio in occasione del congresso si è iscritto, festeggiatissimo, al Prc: facendosi forse non a caso testimone del riavvicinamento con i tentativi di uscire dal sinistra dalle crisi del Pci che furono effettuati da coloro che rimasero nel Pds. E che recentemente si trovano a essere tra i più assidui compagni di strada di una Rifondazione la cui forza sta sempre più al di fuori dei propri confini.(2 - fine)