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PRC: RELAZIONE INTRODUTTIVA DEL SEGRETARIO NAZIONALE FAUSTO BERTINOTTI
Publie le domenica 6 marzo 2005 par Open-Publishing1 commento
Dazibao Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi
di Fausto bertinotti
Sara lavora nel mondo del Web. La sua storia, ci racconta Aldo Nove
che l’ha raccolta per Liberazione, è quella di tanti giovani che
hanno vissuto le illusioni di un ’nuovo’ che non ha significato
nuovo lavoro ma nuove illusioni, vecchie prefigurazioni di un futuro
che non è mai arrivato. Se chiedi a Sara come va, ti risponde:
malissimo. Perché? Perché sono stufa di vivere con l’ansia, sempre.
Perché questa volta davvero non mi aspettavo di essere trattata in
modo così disumano........ L’ennesimo licenziamento, anzi l’ennesima
promessa di assunzione, rimangiata all’ ultimo momento.
Questa è la vita del lavoratore precario. E francamente è una vita
insostenibile. Bisognerebbe mandarla a memoria quella storia perché
è la storia di una generazione, dei nostri figli, dei giovani del
tempo della globalizzazione e del neoliberismo, del capitalismo del
nostro tempo.
E’ una storia prima di ricerche di lavoro
tradizionale, poi nel web con internet. E’ una storia di attesa di
un futuro che non arriva mai, di pochi soldi, di interruzioni, di
riprese di licenziamenti, di chiamate a lavorare e di lasciate a
casa, di incertezze sull’oggi e sul domani, di mobbing, di lavoro
interinale. Sentite come finisce: Oltre alla scorrettezza di un
lavoro promesso e non rispettato, avevo vissuto tre mesi di mobbing
per nulla. Mesi in cui tornavo a casa la sera e piangevo. Tutto
questo per una lavoro. Che all’ultimo momento non ho avuto. Anche se
fino all’ultimo momento ero stata tranquillizzata sul rinnovo.
Comunque, a un certo punto l’agenzia interinale mi richiama. Cosa ti
propone? Un contratto di dieci giorni, sempre nella stessa azienda.
Dieci giorni? Si. Io mi arrabbio e loro promettono di cercare di
fare di più. E in effetti fanno di più. Mi promettono un altro
contratto, più vantaggioso. Passa un’altra settimana, mi richiamano
e mi propongono un altro contratto. Non più di dieci giorni, ma di
quindici...Un delirio? Un delirio. Profondamente offensivo. E adesso
eccomi qua. Barcamenandomi tra un lavoretto e l’altro, senza nulla
di concreto in mano, senza nessuna prospettiva. Quali sono le tue
idee politiche? Per anni sono stata di sinistra. Credevo nei suoi
valori, nelle sue idee. Adesso? Da qualche tempo non credo più a
niente.
Ecco io credo che il nostro primo compito sia quello di restituire
alle Sara la fiducia nella sinistra, di restituire alle Sara la
politica come possibilità e capacità di attraversare la tua vita
quotidiana, la tua esperienza concreta, la tua condizione sociale e
umana, di restituire alle Sara la voglia e la possibilità di
partecipare alla politica per cambiare la vita e il mondo. Sara
mette in luce drammaticamente la crisi della politica, la
fuoriuscita della crisi della politica comincia quindi
necessariamente dalla condizione di Sara. Il bandolo della matassa
risiede nel rapporto tra il lavoro e la vita delle persone, tra esse
e l’organizzazione della società. Essi sono cambiati moltissimo: è
vero che siamo entrati in un ciclo diverso, altro da quello che
abbiamo conosciuto in tutto il dopoguerra.
Ma non è vero che questo nuovo ciclo è quello dell’eccedenza del
lavoro, della fine del lavoro. Il lavoro operaio è addirittura
aumentato nel mondo in questi ultimi anni mentre proprio la ricerca
dell’assolutizzazione della concorrenza e della competitività da
parte di tutte le classi dirigenti rivela tutto il peso del lavoro
nell’accumulazione dell’ultimo capitalismo. E non è vero che i
mutamenti che hanno investito il lavoro stiano dando luogo ad un
miglioramento della condizione lavorativa. La verifica empirica è
implacabile: nei paesi sindacalizzati le nuove generazioni che
entrano nel mercato del lavoro stanno peggio delle generazioni che
le hanno precedute.
E’ la prima volta che accade nella storia contemporanea; per la
prima volta il progresso sociale si arresta e c’è una regressione
nella civiltà del lavoro. Per questa via ci vengono incontro le
gigantesche novità che cambiano il lavoro a partire da quelle forse
più inattese: la crescita di una accumulazione del capitale senza
una crescita contemporanea di una classe operaia unificata e
omogenea. Al contrario la tendenza che investe il lavoro è alla
divisione e alla frammentazione. Ciò che è stata chiamata l’economia
della conoscenza, invece che un processo di liberazione, genera una
disuguaglianza organica, si potrebbe dire essenziale. L’ultimo
capitalismo mette effettivamente all’opera una conoscenza diffusa ma
la connette ad una organizzazione sociale che gerarchizza e segmenta
il lavoro.
Le conoscenze vengono usate nel processo lavorativo ma esse sono
organizzate e riconosciute nella organizzazione del lavoro solo nei
punti alti o di organizzazione realmente autonoma per poi decrescere
nella piramide fino a scomparire con la sostituzione addirittura dei
numeri ai nomi delle persone nei punti bassi dell’organizzazione
della produzione e dei servizi. Raniero Panieri, nelle riflessioni
sul macchinismo agli inizi degli anni ’60, aveva visto che la
tecnologia sotto il segno capitalistico abbatte le vecchie divisioni
del lavoro ma tende ad affermarne una nuova quale mezzo di
sfruttamento "della forza lavoro in una forma ancor più schifosa".
E’ difficile dargli torto analizzando, sotto il segno della
globalizzazione capitalistica, gli effetti della rivoluzione
elettronica, cioè il processo di sostituzione del lavoro industriale
di tipo meccanico verso una produzione a rete, che configura un
passaggio dal taylorismo al taylorismo digitale. In esso al
lavoratore viene chiesto di ragionare secondo la logica di un
cervello artificiale, la macchina, mentre il meccanismo produttivo
estende il suo controllo dentro e fuori l’azienda, per estenderlo al
lavoratore-consumatore. Una nuova servitù. Così il capitalismo del
taylorismo digitale tende a separare quel che usa da chi ne è il
portatore. Così da negare ad esso qualità e diritti.
Inoltre l’introduzione nel ciclo economico dell’informazione come
merce mette a valore una grande quantità di lavoro accumulato nel
corpo sociale senza che essa sia remunerata. La quantità di lavoro
vivo assunta nella nuova macchina è di dimensioni gigantesche mentre
una parte crescente della attività umane entra a far parte, senza
nessun riconoscimento, dell’accumulazione capitalistica. Il lavoro
così dilaga laddove non era previsto come tale e il ciclo produttivo
si amplifica surrettiziamente investendo le diverse attività umane.
La tendenza alla mercificazione di tutto l’agire umano previsto da
Marx compie un balzo in avanti.
Parallelamente cambia la struttura d’impresa e il nesso tra crescita
degli investimenti e dinamica dell’occupazione diventa problematica.
Il pieno impiego non è più espressione di occupazione stabile e
garantita, può invece pretendere incertezza di lavoro e
flessibilità, può darsi insieme lavoro e povertà, si può essere
poveri pur lavorando. Anzi la precarietà diventa la cifra, il codice
della nuova condizione sociale che dal lavoro si allarga a tutte le
attività umane e alla vita. La precarietà è promossa dalla nuova
organizzazione del lavoro ed è alimentata potentemente dalle
politiche neoliberiste degli stati, dei governi e delle istituzioni
sovrannazionali dell’economia, dal primato della finanza, dalla
diffusione della logica del mercato fino alla crescente collocazione
fuori dal territorio interessato dei luoghi di decisione strategica
delle imprese.
La precarietà è l’esito sociale di quella rivoluzione capitalistica
restauratrice che abbiamo chiamato globalizzazione. La lotta contro
la precarietà è il fondamento necessario per fuoriuscire da questo
quadro, per fondare un’alternativa di società. Per riprendere questo
cammino a cui ci sospingono i grandi movimenti di questo inizio
secolo, credo sia necessario rispondere a due domande. In quale tipo
di società si produce questa contesa (e dunque contro chi)? E qual è
il tipo di rapporto che la costruzione dell’alternativa deve
configurare con la modernizzazione in corso? Sono domande molto
impegnative, ardue, difficili ma ineludibili per la fondazione di
una politica del cambiamento.
La stessa nostra sfida col riformismo scaturisce dalle risposte a
questi interrogativi. Le nostre sono di certo solo avvii di una
risposta al cui sviluppo possiamo solo proporci di contribuire
insieme a tutti quelli, e sono molti, con cui è possibile questa
ricerca e questo cammino. Intanto, si può ancora parlare di
capitalismo? Si può ancora parlare di capitalismo per definire la
società in cui viviamo? Noi pensiamo che non solo si possa, ma si
debba, se si vuole restituire un senso forte ad una politica
riformatrice. Il problema semmai è di capire di quale capitalismo
parliamo. Se mi venisse posta la domanda, riconosco un pò rozza ma
non priva di significato: oggi c’è più, meno, o uguale tasso di
capitalismo rispetto, all’Italia di 30 anni fa? Risponderei senza
esitazione: c’è più capitalismo.
Del resto se esiste un’età dell’oro del capitalismo, questa è ormai
alle nostre spalle. Essa è stata quella del compromesso democratico
conquistato dopo la vittoria contro il nazifascismo e favorito dalla
presenza nel mondo del campo del socialismo reale. Il compromesso
democratico conquistato dalle lotte di classe e democratiche del
movimento operaio. Oggi gli attacchi sistematici allo stato sociale,
al potere contrattuale dei lavoratori, alle legislazioni sociali, ad
ogni forma di intervento pubblico nell’economia sono l’espressione
di un "capitalismo predatore" che punta a fare del lavoro, come mai
prima d’ora, una pura variabile dipendente. Una sorta di
modernissimo ritorno all’uso dei canoni dell’800 che vorrebbero il
lavoro, se fosse possibile, senza il lavoratore e la lavoratrice,
cioè vorrebbero il lavoro senza la soggettività.
Non potendolo avere, l’ultimo capitalismo punta a demolire e a
impedire il formarsi tra i lavoratori della coalizione, cioè cerca
di negare il principio da cui nasce l’organizzazione, l’esercizio
del conflitto, il contropotere degli oppressi e da cui è nata la
politica moderna. La precarietà è la base strutturale della
negazione della coalizione, le leggi dei governi neoliberisti e
molte politiche d’impresa si propongono di accompagnarla. La
cancellazione della politicità della questione del lavoro, la
riduzione del conflitto sociale a patologia, e della questione
sindacale a specificità settoriale, a tecnicità sono delle
coordinate culturali interne allo stesso processo. Per questa via
tutti i capisaldi su cui si è venuta costituendo, in particolare in
Europa, una civiltà del lavoro vengono messi in discussione.
Salario, orario, controllo sulle prestazioni lavorative, diritti
delle lavoratrici e lavoratori divengono pure variabili dipendenti,
dipendono dalla competitività e dalla concorrenza. L’impresa e il
mercato non tollerano limiti tanto più perché il capitalismo
predatore è anche capitalismo flessibile e instabile.
Esso scarica sulla società, sulle classi subalterne, sulla natura e
sulle persone non più soltanto i costi dello sviluppo, della
crescita e della crisi, ma anche quelli di un’esposizione al rischio
dell’incertezza crescente delle sue varie componenti. Ma così anche
la democrazia, se intesa anche come partecipazione e come sovranità
popolare, subisce un declino e uno spiazzamento e la politica viene
divorata dall’economia (capitalistica). Cos’è accaduto, a meno della
lotta, delle resistenze, dei conflitti, dei movimenti, nell’Italia
del governo Berlusconi se non proprio tutto questo? E non è questo
il segno che si legge in trasparenza nello stesso trattato
costituzionale europeo, seppure depurato dal peso esorbitante del
primato assoluto della destra? Questo sovrappiù di capitalismo,
questo turbo capitalismo, se segna, il nostro presente, induce a una
prima conseguenza politica: per fare una politica di riforme c’è
bisogno che essa possa fare riferimento ad una forza antagonista,
che nasca dalla nuova condizione sociale di oppressione e di
alienazione e dal processo di costruzione della sua nuova unità.
L’ultimo capitalismo dà ragione a Marx che dice che il capitale
tende a sottomettere tutto a sé perché si pone come totalità e
ancora gli dà ragione quando Marx sostiene che però il capitale non
ce la fa a sussumere tutto dentro di sé. Ma non è vero oggi quel che
noi stessi abbiamo creduto per molto tempo che il capitalismo
unificasse, contro di sé, il lavoro. Non è vero perché oggi lo
sviluppo capitalistico divide, frammenta, isola il lavoro. Unificare
ciò che il capitale divide è il compito arduo, in controtendenza ma
assolutamente necessario che ci sta dinnanzi. Esso riguarda la
coalizione delle lavoratrici e dei lavoratori, percettori di salari,
stipendi e pensioni, e del lavoro autonomo, nelle mille forme delle
nuove dipendenze, delle forme autonome e però eterodirette, delle
ricerche di spazi di creatività e di autogoverno. Sono le stabilità
resistenti eppure a rischio e le precarietà crescenti, il vecchio e
il nuovo e le loro mille sovrapposizioni.
Il primo maggio e il may-day. Bisogna costruire un fronte, una
connessione. Il principale sindacato industriale del paese la Fiom
che già stava a Genova, l’ha intuito; dall’una e dell’altra parte e,
soprattutto, nelle relazioni sociali spontanee, nei luoghi di
incontro e di aggregazione più aperti, si fa strada più di una
consuetudine di incontro, di dialogo, di unità. Ma il più resta da
fare, resta da costruire una nuova unità dell’antagonismo sociale,
un soggetto sociale e politico, vorremmo dire un nuovo movimento
operaio. Nella precisa consapevolezza ormai acquisita che non si
tratta di un’operazione racchiusa nella sfera economica, che il
rapporto di unità con i soggetti portatori di diverse culture è
parte integrante di questa ricerca, non è solo quella dei giorni di
festa. Questo non solo per delle ragioni assai importanti come
quelle che Giorgio Agamben è venuto scrivendo sul rapporto
necessario per dar vita ad un processo costituente del proletariato
tra, da un lato, culture, soggettività, senso di sè e, dall’altra,
la collocazione sociale del proletariato, ma perché, come ci ha
insegnato il pensiero femminista, non cambia di fondo il lavoro se
non cambia il rapporto tra produzione e riproduzione, tra uomo e
donna e perché, come ci hanno insegnato le culture ecologiste, non
c’è trasformazione del lavoro se non cambia il rapporto con la
natura.
E viceversa. Così l’approdo a cui eravamo giunti per somma di
esperienze o di culture ora si rivela un asse strategico
imprescindibile per contrastare i processi si spoliazione
dell’ultimo capitalismo e per costruire la nuova alleanza,
l’alleanza storica necessaria. E’ l’asse che propone di coniugare il
tema della liberazione del lavoro con quella della liberazione dal
lavoro. Tutto sembra dirci che l’una cosa sia ormai impraticabile
senza l’altra e che dal loro legame dipende la possibilità di
lavorare ad una reale connessione tra il conflitto di lavoro e i
movimenti.
La seconda impegnativa domanda riguarda la natura intrinseca della
rivoluzione tecnica che attraversa la globalizzazione neoliberista,
quella che ha dato vita a ciò che è stata chiamata l’economia della
conoscenza.
Essa aveva sollevato grandi aspettative. La critica alla neutralità
della scienza e della tecnica, una delle più forti e importanti
eredità della contestazione operaia e studentesca della fine degli
anni ’60, era stata soffocata dall’idea che stesse venendo alla luce
una innovazione orizzontale, invece che verticale, attiva invece che
passivizzante, insomma una risorsa per i più, per le moltitudini.
Anche a sinistra così si è pensato. Non ho alcuna avversione per chi
indaga tutti gli spazi possibili e, persino impossibili di
un’innovazione di sistema, ne capisco persino la possibilità di
subirne una fascinazione. Nel corpo a corpo di ricerca capita ai più
grandi e intellettualmente generosi, si pensi al Gramsci di
Americanismo e Fordismo. Ma è ora di prendere atto, e anche alcuni
acuti sostenitori dell’apertura di credito alla nuova frontiera, lo
stanno assai utilmente facendo, che la realtà ha falsificato le
aspettative dei riformatori e l’economia della conoscenza si è
rovesciata in un paradosso. Essa ha visto una crescente
mercificazione della conoscenza e una tendenza potente a ridurre il
salario al minimo.
La combinazione dei due fattori si accompagna ad una sistematica
esclusione da ogni circuito di chi non serve, sia sotto il profilo
del lavoro che dell’economia. In essa dunque si da luogo ad una
disuguaglianza organica, che si può chiamare essenziale perché è,
essa e proprio essa, la leva di questo tipo di sviluppo: uno
sviluppo fondato sulle esclusioni. Il processo interroga a fondo la
civiltà e molti sono i richiami che fanno tornare alla mente gli
scrittori della crisi di civiltà prima della repubblica di Weimar da
Walter Benjamin a György Lukacs, da Bernstein a Karl Korsch a Martin
Buber. C’è un divario crescente tra le potenzialità tecnico-
scientifiche del mezzo e la cultura delle popolazioni.
La constatazione è drammatica. Essa rovescia l’assunto positivista e
progressista secondo cui ad uno sviluppo tecnico-scientifico
corrisponde, prima o poi e seppure con una diversa distribuzione, un
progresso, un avanzamento. La cultura delle popolazioni, forse la
ricchezza più feconda per l’umanità, viene colpita e regredisce.
Studi approfonditi prendono in esame il fenomeno dell’impoverimento
culturale delle popolazioni, ma ognuno di noi ne ha conferma
empirica e ne fa ogni giorno oggetto di commenti sul paese di ieri,
sullo sport di ieri, sulle arti di ieri, sulla politica di ieri,
sulle parrocchie, sulle sezioni e sui caffè di ieri.
Più scientificamente si può dire che siamo di fronte ad una
riduzione della conoscenza relativa, tra ciò che è entrato a far
parte della conoscenza in generale e ciò che noi sappiamo. Non vedo
come si possa ignorare le conseguenze distruttive su ciò che
chiamiamo coscienza. Non vedo come si possa sfuggire alla
constatazione di quanto ciò logori la democrazia, costituisca un
fattore di crisi del controllo sociale sulla scienza, sulla tecnica,
sulla decisione delle grandi organizzazioni e istituzioni.
E’ ormai ampiamente verificato come le tecnologie elettroniche,
sulla cui potenza, pervasività, ampiezza d’accesso e frequenza d’uso
non si può dubitare, non producono espansioni del sapere sociale che
invece, come ognuno di noi sa per esperienza diretta, si produce in
percorsi complessi fatti di apprendimento e di insegnamento, fatto
di scambio, di relazioni dirette e mediate, di partecipazione e di
comunità, di costruzione di una comunità scientifica allargata.
L’innovazione tecnica del nostro tempo non ha prodotto, non produce
l’espansione del sapere sociale. Produce invece ciò che degli
studiosi dell’innovazione hanno chiamato il paradosso del tempo.
Esso consiste nell’accelerazione del circuito delle informazioni e
del numero delle informazioni disponibili a cui però corrisponde una
riduzione del tempo della nostra elaborazione cosciente, del tempo
cioè di riflettere, pensare, ragionare.
Si può precipitare nel panico. In ogni caso si determina una perdita
di senso del proprio fare. Così mentre gli strati alti della
popolazione e della stessa popolazione lavorativa acquisiscono nuove
potenzialità e spazi creativi, gli altri, sia nelle funzioni di
consumo che di lavoro, subiscono una tendenza all’impoverimento
delle relazioni. E’ anche per questa via che dall’alto si scavano i
fossati della precarietà. Si consuma una crescente mercificazione
della cultura, dell’arte e della ricerca, insieme ad una
marginalizzazione del processo formativo, della scuola.
Mercificazione della conoscenza e precarizzazione del lavoro
sembrano essere i lati estremi ma convergenti di questo tipo di
accumulazione capitalistica in Occidente.
Ma si può dire Occidente? Noi pensiamo che siamo giunti, stiamo
giungendo ad un passaggio storico cruciale, in cui con il
sopraggiungere dell’ultimo capitalismo viene alla luce proprio la
figura originaria rispetto alla storia dell’occidente. Claudio
Napoleoni affinchè la liberazione fosse possibile indicava il
compito "di guardare in modo diverso al rapporto tra l’uomo e il
mondo, diverso cioè da quello stabilito dalla prospettiva della
produzione-appropriazione-dominazione". Non so se si può usare la
nozione di occidente, ma se sì, certo il suo nomos, la sua figura
originaria, come riconosce anche Carl Schmitt, quella risiede nella
triade appropriazione-produzione-dominazione.
Ma ora è l’esito nella innovazione, nella società e nel mondo di
questo paradigma che spaventa perché si intravedono le conseguenze
quando è portato, com’è, alla sua estrema conseguenza. L’Europa, non
una figura mitica, questa Europa passata per le tragedie provocate
dal suo colonialismo, passata per l’orrore delle guerre tra i suoi
paesi, e per l’orrore assoluto di Auschitz, questa Europa del
deposito di conquiste democratiche e civili della sua storia che è
storia delle lotte tra le classi e delle realtà di vita democratica
prodotta dal movimento operaio, questa Europa non quella del
trattato, ma l’Europa possibile, quella attraversata dai movimenti
della pace e dai movimenti no-global, questa Europa può tirare il
freno, ritrarsi da una modernizzazione senza civiltà, evitare il
precipizio e intraprendere un altro cammino per sé e per gli altri.
Prima che sia troppo tardi. Vorrei riproporvi le parole di un uomo
di un compagno che a questa ansia per il futuro dell’umanità, per il
rischio di distruzione ha saputo trovare le espressioni più
penetranti: Luigi Pintor scrive sul Manifesto il 10 ottobre
2001: "Togliamoci dalla testa che questa guerra sia come quelle che
abbiamo conosciuto nell’ultimo mezzo secolo. Non è ancora la terza
guerra mondiale che immaginavamo ma ne ha tutta la potenzialità
catastrofica.
La spirale terrorismo-guerra-terrorismo non lascia scampo. Anche nel
1939 era difficile capire che cosa stava succedendo e che non
sarebbe stata una parentesi. Finché ci furono quaranta milioni di
morti per poi ricominciare da capo.
La retorica micidiale della guerra e dei patriottismi ci assorda tra
invocazioni al proprio dio e strategie da farmacia. L’obiettivo non
è una pacificazione ma la vittoria. La vittoria non ha prezzo e non
conosce limiti. Spetta ai più forti e noi lo siamo. L’odio si
sommerà all’odio e devasterà gli animi più che le armi i corpi. Che
futuro è? Un futuro senza futuro. Il terrore e la guerra non più
come escrescenza ma come normalità.
Mi scuso per non aver previsto il crollo di quelle torri e che la
terza guerra mondiale sarebbe scoppiata in nuove forme nel 2001
invece che nel 2010. Ero un ottimista. Però ho scritto per anni
della malattia mortale che grava sull’umanità in questo mondo
dissestato e diseguale.
Ero un pessimista.
Tragedia e frivolezza convivono nei media e nella vita pubblica.
Siamo lontani da una presa di coscienza di quel che accade, senza la
quale non c’è speranza. Vorrei vedere mezza Italia concorde ad
Assisi. Vorrei vedere le civiltà superiori e l’Onu fondare in tre
mesi uno stato palestinese come hanno fondato uno stato israeliano.
Non accadrà. Ma senza una presa di coscienza tempestiva e universale
il futuro non ha futuro. Lo dico e non mi scuserò in avvenire per
averlo detto e ripetuto."
Questa presa di coscienza del carattere potenzialmente distruttivo
della spirale guerra-terrorismo è oggi la costruzione, la conquista
della pace. La pace è la stella polare della politica del nostro
tempo, non è solo assenza di guerra è la guida per la costruzione
dell’altro mondo possibile. Esso è gia cominciato a vivere nei
movimenti, nel movimento della pace.
Una nuova cultura politica sta venendo alla luce ed è affermata
anche in modo semplice da moltitudini che prendono coscienza, che
manifestano senza aver bisogno di rigide piattaforme e di potenti
organizzazioni, che si mettono in cammino. Cos’era, se non questo,
la manifestazione del 19 febbraio a Roma per la liberazione di
Giuliana Sgrena? Solo chi non capisce questa nuova lingua dei
percorsi di liberazione, può pensare che essa sia stata meno
politica di altre più militanti, in realtà siamo invece di fronte a
nuove esperienze di massa che contengono annunci, embrioni di una
cosa che possiamo chiamare la riforma della politica, con la sua
riappropriazione da parte di centinaia di migliaia di individui
affinché la politica possa tornare a riattraversare la vita, le
emozioni, i sentimenti. La vita contro la morte, la pace contro la
guerra e il terrorismo. Il movimento ha avuto ragione su tutto.
Il partito della guerra torto su tutto. La guerra è stata fatta,
hanno detto, perché l’Irak possedeva armi di distruzioni di massa.
Senza questa motivazione Bush con i suoi alleati non sarebbero stati
politicamente in grado di farlo. Le armi di distruzione non c’erano.
Le truppe di occupazione si sarebbero dovute ritirare. E dovrebbe
far riflettere il paradosso più volte richiamato secondo il quale se
l’esercito degli USA volesse davvero trovare armi di distruzione di
massa non in Irak le dovrebbe cercare, ma invece proprio negli Stati
Uniti dove ne troverebbe la più granda quantità esistente al mondo.
Hanno deposto Saddam, non era l’obiettivo dichiarato della guerra,
ma se fosse stato quello vero, seppure nascosto, dopo la sua caduta,
se ne sarebbero dovuti andare dall’Irak. E non vale l’argomento che
restano per garantire la sicurezza perché altri, non coinvolti nella
guerra, lo avrebbero potuto fare davvero. Milioni di irakene e di
irakeni sono andati a votare appena ne hanno avuta l’occasione.
Altri ne sono stati impediti dalla guerra di occupazione e dal
terrore. C’è il rischio alto, di una balcanizzazione del paese
dell’esplodere di conflitti religiosi. Noi che abbiamo imparato a
fare della democrazia e anche del voto un elemento fondativo della
politica in cui crediamo ci siamo persino emozionati.
Ma anche quei voti chiedono la pace, la sovranità per il popolo
irakeno, la fine del regime di occupazione. Non sono un paravento
per nascondere la terribile realtà: la guerra continua. La guerra
col suo carro di morte, ieri e oggi, e di odio per l’oggi e per il
domani. Il dottor Salam Ismael ha portato aiuti a Fallujia. Ecco
l’inizio del suo racconto com’è apparso su Liberazione: " La prima
cosa che mi ha colpito è stato l’odore, un effluvio difficile da
descrivere, e che non dimenticherò mai. L’odore della morte.
Centinaia di cadaveri erano in decomposizione nelle case, nei
giardini e nelle strade di Falluja. Corpi che si putrefacevano là
dove erano caduti - corpi di uomini, di donne e bambini, molti semi-
divorati dai cani randagi.
Un’ondata di odio aveva spazzato via due terzi della città,
distruggendo case e moschee, scuole e ospedali. Era questo il potere
terribile e spaventoso dell’assalto militare statunitense."
Questa è la guerra di Bush e dei suoi alleati. Non c’erano le armi
di distruzione in Irak, non c’è più Saddam, perché la guerra
prosegue? Perché il governo italiano, come continuiamo a chiedere
con forza, d’intesa con tutto il movimento pacifista, non ritira le
sue truppe come ha fatto Zapatero allineandosi a Francia e Germania
che mai le avevano inviate? Perché malgrado la crescita del
terrorismo, la guerra di Bush continua?
Perché la guerra prosegue malgrado il suo evidente fallimento e la
sua manifesta crisi?
La risposta sta nella teoria della guerra preventiva, nella politica
imperiale degli USA di Bush, nella loro scelta di una organizzazione
unipolare del mondo e non solo di una politica unilaterale.
Quest’ultima può anche cambiare, riguarda il sistema di relazioni
tra gli stati e le congiunture politiche, è l’altra che deve essere
messa in discussione, appunto la teoria della guerra preventiva,
l’organizzazione unipolare del mondo e della globalizzazione. Questo
è il compito dell’Europa se vuole affermarsi come soggetto mondiale
autonomo, questo è il compito del movimento per la pace.
E’ un compito che si nutre anche di obiettivi parziali e imperfetti
che possano segnare altri elementi di crisi nella strategia della
guerra e prime conquiste dei movimenti. Guardiamo con questa ottica
a ciò che avviene in terra di Palestina in cui ogni spiraglio di
trattativa, di affermazione di diritti negati al popolo palestinese
vanno appoggiati incoraggiati anche quando oppressi da un muro che
costituisce un’intollerabile e sistematica violenza. E che noi
chiediamo venga fermato e rimosso. Altro, la pace, appunto, deve
essere la garanzia che pure è dovuta al futuro dello stato di
Israele.
La pace contro la guerra, in Palestina come nel mondo. Vorrei usare
le parole di Alì Rashid per delineare un’agire, un far politica
proposta per il suo popolo, che anche il nostro agire. La pace non
può essere solo assenza di guerra, perché è la guerra che segna il
nostro tempo, che entra nelle nostre vite, che plasma le relazioni
umane, che condiziona l’economia. La guerra è nemica dell’umanità,
della partecipazione e della trasformazione. Il terrorismo è nemico
dell’umanità, della partecipazione e della trasformazione. La guerra
e il terrorismo sono nostri nemici.
La spirale guerra-terrorismo avevamo intuito che avrebbe segnato
tutto ciò che non gli si oppone apertamente, che non gli si dichiara
irriducibilmente estraneo. Essa arriva sino a noi nelle forme di una
moltiplicazione della violenza, della perdita di valore della vita
umana. Le forme dell’orrore si moltiplicano, prendono di mira i
bambini e la donna, l’infanzia e le donne come a dire di una volontà
di devastazione all’origine della vita. La penetrazione delle
organizzazioni criminali dalla mafia alla camorra nelle grandi e
disgregate periferie urbane del sud, non è altro che questo, parla
lo stesso linguaggio di violenza e di morte.
Non è il riemergere di forme arcaiche, è un lato di questa
modernizzazione che succhia dalla guerra e dal terrore il primato
del dominio attraverso la forza e la violenza, la sospensione della
legalità, il controllo del territorio, privato di ogni forma di
autogoverno, di comunità condivisa e partecipata. Sono le ricchezze
ricavate dalle attività criminose che vengono mese in rete
confondendosi da un lato con i flussi degli incontrollabili processi
finanziari, e dall’altro, facendosi impresa attraverso cui
esercitare un più penetrante controllo del territorio. Sono imprese
che sommano la flessibilità e il basso costo del lavoro a cui tende
per altro l’intero sistema, con un sovrappiù di dipendenza del
lavoratore ricattato dalla catena malavitosa in cui l’azienda è
inserita.
Sono imprese capaci di delocalizzare, specie in paesi dove il regime
di bassi salari si somma ad una particolare esposizione
dell’economia al contagio dell’economia criminale. Così la violenza
della guerra e del terrorismo scende i vari gironi attraverso la
contaminazione dell’economia e delle produzioni culturali e
dell’informazione fino ad incontrare la solitudine della nuova
condizione urbana per esplodere in violenze imprevedibili e
contagianti.
Si produce così una crisi della coesione sociale, la crisi della
comunità, entro cui passa, nel territorio, l’imbarbarimento delle
relazioni quotidiane così come nel mondo la barbarie è portata dalla
guerra. Ieri le arginava nel mondo l’eredità della vittoria contro
il nazifascismo, persino nella realtà sfigurata di Yalta dei blocchi
contrapposti. Ieri l’arginava, nel territorio una forte cultura
popolare nata dalla lotta di classe nelle fabbriche e vissuta nei
quartieri popolari attorno ad esse, alimentata dalle leghe
sindacali, dalle sezioni del PCI, del PSI, dei partiti della
sinistra, ma anche dalle parrocchie e da un rapporto con
l’intellettualità e la cultura che formava un senso comune. Oggi gli
argini e le casematte dell’ultimo novecento sono saltate o resistono
con affanno. Ma la globalizzazione capitalistica e le politiche
neoliberiste non sono riuscite a fare il deserto.
I movimenti di questi anni vanno costruendo nuovi argini e nuove
casematte e vecchie si sono riformate. Nel mondo, con la rinascita
di un movimento mondiale, ha preso corpo una potenza democratica in
formazione, pacifica e non violenta che si oppone alla guerra. Nel
territorio, sono cresciuti spazi democratici con ciò che ha già
seminato il movimento, con la ripresa del conflitto sociale, con la
reinvenzione di nuove forme di aggregazione, di socialità, di
disobbedienza, di spazi liberati, di autogoverno. Ieri, alla fine
del secolo scorso, la partita sembrava chiusa e c’era chi aveva
cantato la fine della storia nel capitalismo. Oggi la partita si è
riaperta e proprio sul fondo della questione, cioè su dove va la
storia. Dobbiamo far vivere, insieme, il senso di speranza e di
fiducia di questa grande contesa che si riapre sul destino
dell’umanità e percepire il senso drammatico di questa contesa.
Perciò abbiamo fatto ricorso alla formula socialismo o barbarie.
Essa non è meno incisiva per il fatto che la barbarie sappiano
cos’è, lo impariamo dal mondo in cui viviamo, mentre il socialismo
che vogliamo costruire è esso stesso una ricerca aperta, incompiuta.
Non un modello di società futura già definito, da realizzare magari
attraverso la presa del potere. Potere che invece abbiamo imparato
va sottoposto ad una critica permanente chiunque lo detenga. Per
questo parliamo di una ricerca, quella del superamento della società
capitalistica che cammina sulle gambe dei movimenti, ponendosi
domande, dandosi risposte, verificando il cammino. Abbiamo fatto
ricorso alla formula socialismo o barbarie per dare, per intero il
senso della sfida del nostro tempo. E per sottolineare una
similitudine con il drammatico tornante di cui ci parlava Rosa
Luxemburg e che si dà quando il predominio borghese di classe non dà
più luogo al progresso storico.
Una condizione che si può dare, abbiamo imparato, più volte, come
rischio e come potenzialità ravvicinata. Il fatto che essa possa non
sfociare, fino in fondo, nell’uno o nell’altro corno del dilemma non
smentisce l’approccio. Chi non vede quando si affaccia il rischio di
catastrofe, può anche fondarsi su elementi tecnici non del tutto
infondati, ma resterà politicamente muto. La pace è la nostra
alternativa alla catastrofe e ciò che ordina la politica della
trasformazione, la rivoluzione, si potrebbe dire, del nostro tempo.
L’aveva inteso bene padre Balducci sia nel cogliere il rischio, sia
nell’individuare la linea d’uscita.
"La situazione è drammatica solo perché la transizione, unica
alternativa alla catastrofe, non può essere il semplice prodotto dei
processi in corso, essa chiede un dispendio aggiuntivo di libertà
creativa. Lasciati a se stessi o assecondati con quella etica della
rassegnazione, questi processi non potranno non condurre al loro
sbocco naturale, che è la distruzione."
Questa libertà creativa di cui parlava Balducci è l’assunzione della
pace come bussola dell’agire per la trasformazione della società.
Costruire la pace, a partire dei movimenti nella società, dai
comportamenti sociali e umani, per giungere ad investire le
politiche degli stati e delle istituzioni e fondare nuove forme di
organizzazione della società e dell’economia. Nuovi modelli di
sviluppo diremmo, se la critica al paradigma dello sviluppo
quantitativo, quello che si misura in Pil, per intenderci, non ci
rendesse critici nei confronti dello stesso uso del termine
sviluppo. Costruire la pace è il nostro compito. Noi eleggiamo
l’Europa, l’altra Europa rispetto a quella di Maastricht e del
trattato, come tessera di questo mosaico di pace . Un’Europa della
traduzione, ha detto Etienne Balibar, cioè del dialogo tra le
culture e le civiltà, un’Europa che dal Mediterraneo trae la lezione
fondamentale: mare nostro, perché costruito tra diversità e
comunioni.
L’Europa politica a cui lavoriamo è, in primo luogo, un soggetto di
pace nel mondo, che contribuisce a creare una civiltà in cui la
guerra è un tabù. L’Europa che vogliamo ripudia la guerra, come
recita l’articolo 11 della nostra Costituzione, ma come, invece, non
fa l’Italia reale. Ma il filo della pace va tirato a guidare le
nostre azioni, non solo ciò che rivendichiamo ma per ciò che
facciamo. Nonviolenza, partecipazione e democrazia.
La non violenza non è una nostra invenzione, l’abbiamo imparato a
Genova quando il movimento di fronte ad una strategia della
repressione che lo voleva schiantare si è sottratto alla spirale
repressione, violenza, nuova repressione e ha invece dato luogo ad
una pratica di massa che, passando per Firenze, è giunta fin qui. E
per questo che possiamo ancora custodire il dolore per l’uccisione
di Carlo come l’accompagnamento a questo cammino di liberazione
dall’ingiustizia, dall’oppressione e dalla violenza.
La nonviolenza come hanno insegnato coloro che anche in Italia
l’hanno pensata e praticata in tempi lontani ben prima di noi, da
Aldo Capitini a Danilo Dolci, non è una poesia per anime belle, né
tanto meno una qualche riduzione del conflitto col potere e col
sistema. Non è una pratica compromissoria. Essa costituisce al
contrario una pratica sociale attraverso la quale le classi
subalterne, le masse, le moltitudini, le persone prendono nelle mani
il loro futuro, lottando senza più delegare, lottando e imparando
dagli altri, lottando e conquistando, lottando e già praticando
l’obiettivo, cambiando la società, la realtà, e anche se stessi.
Nonviolenza è un percorso di liberazione contro la violenza del
potere e del sistema, contro la guerra.
Un anticorpo contro le barbarie da cui può prendere corpo una nuova
stagione di partecipazione, di democrazia partecipata. La conquista
della pace è costruzione di comunità e la messa al lavoro politico
di quell’attività continua di autotrasformazione che la
caratterizza, di azione sociale attiva, di occasione di nuovi e non
autoritaritari fattori per la coesione sociale, secondo
l’ispirazione dettata dalle parole di Giovanni Franzoni: "la
comunità non esiste ma è ripetutamente possibile". Ed è possibile
concretamente perché insieme ai movimenti e ai conflitti sociali in
Italia sono sorte esperienze importanti di democrazia partecipativa
che hanno cominciato a vivere anche nelle istituzioni, come nelle
pratiche dei nuovi municipi, dei bilanci partecipativi. La critica
ai limiti della democrazia rappresentativa ha già cominciato a dar
luogo a nuove realtà sociali e nuove istituzioni.
Ma costruire la pace vuol dire, e a questo obiettivo noi tutti siamo
ancora lontani, costruire un vero e proprio cambio di asse del
modello sociale. Torna così, per noi che qui stiamo, l’Europa come
realtà minima necessaria per operare questo cambio che col rilancio
dell’obiettivo del disarmo, ripropone lo stesso filo che avevamo
annodato sul lavoro, quello della riconversione dell’economia, di un
diverso rapporto tra la produzione e la riproduzione, tra l’economia
e la natura.
Dal disarmo può prendere slancio un’Europa di pace. Questa Europa
non ha bisogno di un suo esercito. Al contrario annodando il filo
del disarmo l’Europa potrebbe promuovere una campagna per la
riduzione delle spese militari, di riconversione delle industrie
delle armi a partire dalla messa al bando di quelle più distruttive,
di superamento delle servitù militari che condannano paesi liberi ad
essere occupati da basi militari di altri paesi. E’ in questo quadro
di un protagonismo di pace dell’Europa che il superamento della NATO
acquisterebbe un senso ancor più forte.
Ne guadagnerebbe una prospettiva di rilancio delle Nazioni Unite a
governo di un mondo multipolare. E i paesi del Terzo mondo
potrebbero sperare che qualche altra parte del mondo non sia già
dimentica, dopo qualche mese, e dalla catastrofe dello tsunami,
catastrofe naturale di cui non può però vantare innocenza il nostro
modello di sviluppo né l’organizzazione imperiale del mondo. Forse
un’Europa che al posto degli eserciti schiera la protezione civile e
sa vedere che il maremoto fa esplodere la faglia tra ricchi e
poveri, forse un’Europa così può parlare, oltreché ascoltare, i
tanti sud del mondo.
Il cambio del paradigma produzione-appropriazione-dominazione è
dunque ciò che propone l’assunzione del tema della pace quale centro
fondativo della politica, quale linea di rinascita della grande
politica. E il tema della pace chiama nel mondo di oggi il tema
della trasformazione e lo chiama non attraverso una riverniciatura
ideologica bensì a partire dalla vita, delle ansie e delle
aspettative immerse nella vita di ogni giorno.
Un altro mondo è possibile. E’ in questo quadro caratterizzato da un
conflitto di fondo sulle sorti della civiltà, che investe così
direttamente l’Europa e il suo futuro che si colloca il nostro
problema qui, in Italia. Qual è il senso della contesa che in
maniera strisciante ma forte investe da tempo il paese? Qual è la
posta in gioco, l’oggetto della sfida? E dove stiamo rispetto ad
essi? Sono domande di fondo. La nostra opinione è che questo
conflitto si sia venuto radicalizzando con la crisi delle politiche
neoliberiste, l’allargarsi della opposizione sociale, della protesta
e della rabbia di larghi settori del paese a cui tuttavia non
corrisponde alcun cambiamento.
C’è solo la riproposizione delle stesse politiche neoliberiste già
fallite. Così matura una crisi ancor più profonda se non interviene
rapidamente un inversione di tendenza reale, un cambio. Si gioca qui
il possibile esito della contesa di classe, sociale e politica
ovvero la possibilità di determinare o no la discontinuità, la
rottura con un intero ciclo. Una questione, se così la si intende,
che va ben oltre il problema delle elezioni politiche del 2006,
sebbene passi per esse.
La prima domanda a cui dobbiamo rispondere non è, se in caso di
sconfitta di Berlusconi, dobbiamo o no far parte di un governo di
alternativa, bensì qual’è il problema che il paese ha di fronte e
come può essere risolto. Il ciclo breve, anche se a noi appare come
un tempo tanto lungo da essere intollerabile, il ciclo breve del
governo delle destre in Italia sta infatti dentro il ciclo lungo del
dominio delle politiche neoliberiste che hanno accompagnato una
riorganizzazione dell’economia della società e della politica, che
dura ormai da un quarto di secolo e ci ha condotti a questo punto di
crisi. Il problema di fronte a noi è il seguente: dopo 25 anni è
possibile riprendere un cammino di riforme sociali e di struttura
che rompa questo ciclo, riaprendo un percorso progressivo oppure
andiamo incontro ad una regressione sociale, democratica e nei
diritti di civiltà da diventare irreversibile per un lungo tempo,
segnando così la definitiva collocazione dell’Italia fuori dalle
aspettative, dalla speranza e dalle conquiste che sono state il
segno più profondo lasciato dalla Resistenza, dalla Lotta di
Liberazione, dall’Antifascismo? Questa è la sfida.
Quel che dobbiamo sapere è che questa sfida è oggettivamente aperta
e attraversa già la vita delle popolazioni.
La crisi sociale non potrebbe essere più acuta. Le nuove generazioni
misurano, sulla propria condizione il futuro del paese. La crisi di
fiducia nel nostro futuro è palpabile. De resto come potrebbe non
esserlo se, come abbiamo visto, per la prima volta, in tutto questo
lungo dopoguerra, i figli stanno peggio dei padri? La precarietà e
l’incertezza risalgono dalle nuove generazioni e dai soggetti più
esposti fino a segnare la condizione di tutte e di tutti, fino
condizionare la vita delle persone e del paese interno.
La precarietà non è più l’espressione di un’arretratezza, non è il
nostro passato da cui potersi sottrarre in un processo, anche se
lento e difficile, di emancipazione, ma è diventata il nostro
destino. Non stà alla nostre spalle ma dinnanzi a noi, non è la
zavorra del passato riassunta nella figura del caporalato di cui
fatichiamo a liberarci, ma l’espressione della modernità di questa
globalizzazione. Lo si vede persino nell’uso obbligatorio della
lingua inglese con cui vengono chiamate tutte le nuove figure
lavorative della precarietà.
Guardiamo alla condizione dei migranti. Nel precedente secolo, la
condizione di migrante rappresentava un cuneo del passato che
penetrava nel presente del nuovo paese. Il migrante era sfruttato
come "prima" si sfruttavano i lavoratori di quel paese; non aveva
diritti come "prima" non avevano diritti quelli che poi li avevano
conquistati; aveva poco salario come "prima" avevano poco salario
gli altri. In un lento, faticoso, spesso anche drammatico processo,
si poteva pensare di guadagnare una condizione di uguaglianza, verso
l’alto.
Oggi al contrario, la condizione del lavoratore migrante esprime la
modernità di una condizione di lavoro servile, di una tendenza alla
generalizzazione della precarietà che è perseguita per tutti i
lavoratori e che vede nel migrante il suo lato più esposto. Il
migrante non rappresenta più il passato di una condizione che non
c’è più per i locali, ma al contrario egli sperimenta la modernità,
si fa per dire, di una condizione in cui la globalizzazione
neoliberista intende trascinare tutti. Ecco perché la lotta per i
diritti di cittadinanza per i migranti è parte della ricostruzione
di un nuovo movimento operaio, e parte della costruzione di una
coalizione sociale vincente.
La regressione sociale è il futuro che ci propone la globalizzazione
capitalistica. Guardiamo al fenomeno dell’allargamento delle
povertà, anche attraverso l’insieme degli studi, delle analisi,
delle esperienze che le associazioni di volontariato come la Caritas
propongono con un allarmante serie di dati sui nuovi poveri. Non si
tratta più solo di emarginati, che pur crescono drammaticamente,
come ci dicono le storie di strada. Si tratta di una condizione del
tutto diversa dal passato. Una condizione da cui non si tende più ad
emanciparsi, anche gradualmente, ma in cui si rischia, al contrario,
di precipitare anche da parte di settori prima garantiti, o almeno
immunizzati da questo rischio dal lavoro e dallo stato sociale.
Pensiamo solo a come pesano i costi della sanità sull’aumento
dell’insicurezza sociale. Pensiamo a come una sanità, in parte già
privatizzata, anche per via di leggi e dispositivi penalizzanti, si
rende ostile al mondo di chi ha bisogno di cure. Pensiamo alla
condizione abitativa. La casa è un’altra spia del fallimento delle
politiche neoliberiste. Alla liberalizzazione del mercato e alla
privatizzazione e dismissione del patrimonio abitativo pubblico, non
ha corrisposto, la liberazione del mercato e il soddisfacimento dei
bisogni, bensì il monopolio della rendita immobiliare speculativa.
L’Italia è divenuta il fanalino di coda dell’Unione europea
nell’offerta di alloggi a canone sociale. E, oggi, avere o non avere
casa è questione decisiva rispetto al rischio di precipitare nella
disperazione quando la perdi, specialmente se da vecchio, mentre la
mancanza di una casa da abitare diventa un impedimento per molti
giovani a progettare la propria vita. Si potrebbe continuare fino ad
arrivare al peso duro e allarmante dell’attacco alla previdenza
pubblica, al diritto alla pensione. Se la crisi sociale del paese è
l’ottica da cui guardare al destino dell’Italia, capire fino in
fondo il peso che le politiche del governo Berlusconi hanno nel
processo di disgregazione sociale diventa decisivo nella costruzione
di una politica di alternativa.
Non è che le politiche neoliberiste comincino col governo
Berlusconi, gli stessi governi di centro-sinistra colpevolmente si
erano messi, seppure con moderazione, spesso su questa via, ma è col
governo Berlusconi che prende corpo un’idea complessiva di un’Italia
come grande nord-est: un’Italia aggressiva all’esterno e all’interno
che fonda la competitività delle merci italiane sulla riduzione del
costo del lavoro e sull’assolutizzazione della flessibilità, che
punta sulla riduzione dello stato sociale a stato sociale minimo
(l’economia compassionevole), che promette una sistematica
irresponsabilità sociale, si veda il discorso sulle tasse, ai ricchi
e ai ceti possidenti.
È questa politica che fallisce clamorosamente: produce i guasti
sociali previsti ma viene sconfitta anche sul tema della crescita
dell’economia e della competizione. E’ qui che si sta consumando la
crisi del rapporto tra il governo e il paese. Troppe volte anche a
sinistra si manifesta un atteggiamento aristocratico e sbrigativo
nei confronti del berlusconismo, atteggiamento che non consente di
vedere il disegno di cui è portatore; disegno che può essere
sconfitto ma che ha una sua forza.
C’è una logica in quella follia. Se guardiamo alle modifiche
istituzionali e nel rapporto tra i poteri perseguita da Berlusconi
vediamo riemergere l’antica teoria della Trilateral: se i canali
democratici portano domande, rivendicazioni a cui il sistema non sa
o non vuole rispondere; allora ostruisci i canali democratici così
che si spenga la domanda. E’ l’attacco al sistema delle autonomie, a
tutte le autonomie, quella del parlamento, quella della
magistratura, quella dei sindacati, quella del governo locale, a cui
il federalismo da i poteri solo per fare la politica che vorrebbe il
governo, a quello delle popolazioni a cui si nega la possibilità di
decidere sulla propria esistenza.
E l’attacco alle autonomie si accompagna ad una concentrazione di
poteri nell’esecutivo e nell’asservimento ad esso di assi centrali
per i nuovi destini della democrazia, come la cultura e
l’informazione, a partire da quella radiotelevisiva. Basti dire che
nella modifica costituzionale del governo se c’è un contrasto tra il
capo del governo e il parlamento, non c’è la crisi di governo ma è
il capo del governo che manda a casa il parlamento. Un disegno,
dunque, non solo delle provocazioni, un disegno di cui sarà meglio
vederne bene l’insidia per non avere domani brutte sorprese.
Bisogna essere attenti a cogliere i nessi, i collegamenti che legano
i diversi aspetti della politica di questa particolare specie di neo-
conservatori, che sono quelli italiani. Nessi che li possono
portare, per difendere la causa della guerra, a una riscoperta del
sacro nella politica di forza, senza timore di poter essere
considerati blasfemi. Nessi con i quali i nuovi conservatori pensano
di tessere i fili di una corazza ideologica con la quale salvare una
politica fallimentare. Pensiamo alla legge sulla procreazione
assistita. L’impianto confessionale della legge lavora in direzione
di uno stato etico che possa sostituire il consenso che non c’è con
le prescrizioni, a quel punto e come tali, indiscutibili.
Persino le inutili cattiverie previste dalla legge, l’imposizione
alla futura madre di norme vessatorie fanno da corredo ad un
principio reazionario che ne costituisce il cuore: tu donna non puoi
decidere liberamente della tua maternità. Per questo siamo stati con
i radicali e con gli altri protagonisti della raccolta delle firme
per il referendum e siamo impegnati oggi in uno schieramento largo,
di cui le donne sono le protagoniste, per una causa di libertà da
affermare con la vittoria dei si al referendum.
Lo siamo anche per disvelare il pericolo della operazione ideologica
operata dalla destra. Non sarà inutile ricordare la campagna
elettorale che ha portato Bush alla vittoria e il peso in essa
dell’ideologia. La sconfitta di Berlusconi richiede una forte lotta
culturale, la nostra capacità di far emergere compiutamente una
cultura politica, se volete un’ideologia, un’idea del mondo,
alternativa a quella delle destre. Per questo facciamo della pace la
guida di un intero discorso politico. Ma, contemporaneamente, questa
lotta culturale deve attraversare la vita quotidiana delle persone e
delle popolazioni, deve dare corpo a una critica pratica, radicale e
concreta, delle attuali condizioni di lavoro e di vita per risalire
da esse alla contestazione delle cause che le producono e ad un
processo di riforme sociali ed economiche per rimuoverle.
C’è una triade legislativa nell’azione del governo Berlusconi che ha
espresso organicamente, il suo intero progetto sociale. Sono la
legge 30 sul mercato del lavoro, la Bossi-Fini sull’immigrazione e
la legge Moratti sulla scuola. Il centro di ciò che le ispira è
l’idea del lavoro come pura variabile dipendente dalla
competitività. Con la legge 30 la precarietà diventa legge e può
pervadere l’intero mondo del lavoro, prendendo persino il posto
della parti normative dei contratti. La messa in discussione del
contratto nazionale collettivo completerebbe la scelta di togliere
ai lavoratori la possibilità di unificarsi ai fini di costruire un
forte potere contrattuale.
La legge 30 corrode il contratto. La Bossi-Fini, oltre alla lesione
di diritti civili fondamentali per i migranti, con la negazione dei
diritti di cittadinanza e con la dipendenza assoluta dall’impresa,
li configura come il possibile ventre molle su cui premere per
trascinare l’intero convoglio del lavoro verso le stazioni della
precarietà, del lavoro nero e grigio. Ma, allora, se il destino per
la stragrande maggioranza della popolazione lavorativa è di un
lavoro precario e povero, deve avere pensato la Moratti perché
sprecare soldi nella formazione, nella scuola? Il governo ha
risposto alla domanda con una legge che ha visto subito
un’opposizione di massa, a partire dagli insegnanti, perché in
realtà essa propone la fine della speranza di una scuola di qualità
e di massa.
Al contrario, con la legge Moratti, salvaguardato il percorso aperto
verso l’alto, anche verso scuole di eccellenza, di uno strato
ristretto della popolazione scolastica vocata a divenire parte delle
classi dirigenti, per gli altri viene proposto il declassamento
sistematico della formazione a formazione professionale. Così nasce
quell’insulto al diritto alla formazione che è l’obbligo di
scegliere a 12 anni a quale indirizzo avviarsi. A 12 anni non
scegli, sceglie per te la famiglia, messa sotto un ricatto tanto
crudele quanto oggettivo. Non sceglie neppure la famiglia, sceglie
il bilancio familiare. Sceglie la busta paga.
Se non sei benestante sei escluso. Si chiama discriminazione di
classe. E’ giusto, è necessario ribellarsi. Per questo ci proponiamo
come tanta parte dei movimenti, insieme a molte altre realtà sociali
e politiche l’abrogazione della legge 30, della Bossi-Fini e della
Moratti. Non c’è nulla di estremistico in queste richieste. Se ci
sono sulla via che hai intrapreso, dei macigni che ti impediscono il
cammino, cosa devi fare se non rimuovere i macigni? Rimuovere questi
macigni controriformatori, a noi pare un compito che il governo
dell’alternativa a Berlusconi dovrebbe realizzare per dispiegare,
liberato il terreno da essi, un nuovo corso riformatore che punti a
valorizzare il lavoro e le culture in una nuova connessione
creativa. Bisogna battere Berlusconi ma anche le sue politiche.
Berlusconi del resto non è una parentesi nella storia del paese
chiusa la quale tutto torna al suo posto.
Da un la lato Berlusconi è parte di una destra che agisce su scala
mondiale, si veda il legame con Bush, dall’altro egli, piuttosto che
essere un corpo estraneo al paese, è la narrazione, il racconto di
una certa Italia. Dietro il governo delle destre si affaccia la
questione dello stato generale del paese e più specificatamente
della sua classe dirigente, del capitalismo italiano. La
globalizzazione ne ha messo in luce la crisi e ne ha accentuato il
declino. E’ un capitalismo allo sbando, che si attarda a replicare
politiche già fallite.
La grande impresa industriale privata non c’è più. Paradossalmente
le uniche grandi aziende rimaste sono pubbliche. Il caso Fiat è
emblematico, quasi il prisma attraverso cui leggere il fallimento
della grande borghesia del paese. Liberata come aveva preteso dai
lacci del potere contrattuale dei lavoratori e dai pretesi laccioli
del pubblico, la Fiat è giunta alla sua crisi più drammatica. Senza
intervento pubblico la ricerca strategica è uscita dalla politiche
del paese, mentre l’illusione piccolo è bello si è frantumata su un
mercato mondiale connotato dal ciclo politico del dollaro e
dall’ascesa imponente di nuovi grandi produttori come la Cina.
Del resto un’economia tutta proiettata verso l’esportazione,
sostanzialmente privata della leva del mercato interno, anche per
continuare a comprimere i salari gli stipendi e le pensioni è, in
queste condizioni, in un’empasse drammatica . Ha ragione Luciano
Gallino: o le imprese pensano di portare i salari dei lavoratori
italiani al livello di quelli cinesi oppure si deve cambiare strada.
Cambiare strada dunque, ma in quale direzione? La via del centro-
sinistra mondiale degli anni ’90 è diventata oggettivamente
impercorribile. Non vogliamo riproporre la discussione di allora. E’
che oggi è caduta la possibilità di vedere attribuita
all’innovazione, alla globalizzazione una fase di crescita
ininterrotta e, anche attraverso nuove regole, la possibilità di
operare al suo interno la redistribuzione della ricchezza e dei
diritti. Anche importanti dirigenti riformisti riconoscono di aver
subito in quel periodo il fascino di una lettura liberale dei
processi.
Comunque non si può tornare a prima di Berlusconi. La crisi e il
declino del paese configurano un terreno che propone la
riprogettazione di una grande politica di riforma, in un passaggio
per alcuni versi cruciale e inedito. La questione investe più in
generale l’Europa e solo a quel livello può trovare una soluzione di
assetto strategico. E però l’ltalia è un caso particolare di questa
Europa e perciò lo scontro oggi è assai significativo anche nella
dimensione europea. Qui da noi si presenta più acutamente che
altrove, penso alla Francia ma anche alla Germania, uno scontro di
fondo da cui, in qualche misura, ne dipendono molti altri. C’è
bisogno ora di un progetto di società, di un’idea del paese in
Europa come vorremmo che fosse tra 5-10 anni.
C’è bisogno della creazione di una nuova strumentazione della
politica, del pubblico per perseguire gli obiettivi riformatori.
Solo così può nascere un grande processo di partecipazione
democratica al programma dell’unione, solo così può crescere la
politica. Dobbiamo essere avvertiti, se questo non accadrà la crisi,
il declino potrebbero precipitare il paese in una giungla. Sarebbe,
per il paese, l’americanizzazione senza lo sviluppo. Il pericolo
c’è, c’è una irresponsabilità crescente dell’imprenditoria nei
confronti della società, tutto il contrario delle ragioni sociali
dell’impresa.
I processi di delocalizzazione ne sono una manifestazione e vi
concorrono. Così come vi concorre la deterritorializzazione dei
luoghi di decisione strategica dell’impresa. Se il padrone
dell’acciaierie sta a Terni, a Terni, in qualche modo, tanto più di
fronte ad una capacità di mobilitazione dei lavoratori e della
comunità, deve rispondere, ma se sta in un altro paese può farsi
indifferente a quel territorio. E lo diventa tanto più se il potere
pubblico si è di fatto dissolto, diventato irresponsabile anche lui
in quanto nascosto dietro la regnatela dei divieti della burocrazia
neo-liberista.
Ne hai la conferma proprio nella vertenza appena chiusa, sul terreno
sindacale, della difesa dei lavoratori, con un buon accordo. Ma la
perdita del magnetico a Terni è un’altra sconfitta per le politiche
industriali del paese. In realtà privo di strategie di sviluppo il
capitalismo italiano, in crisi nel mondo globalizzato, sembra
proprio inseguire il sogno (o l’obiettivo) di un ritorno all’’800.
La crisi delle politiche neoliberiste non da luogo automaticamente
al loro abbandono, anche perché incontra la crisi della classe
dirigente del paese. Perciò è necessario un grande intervento
soggettivo, un disegno politico, che punti a costruire una nuova
classe dirigente del paese, dando vita ad un nuovo modello economico-
sociale in una nuova Europa.
È necessario perché il paese è ad un bivio. Questa è la radice
strutturale, si potrebbe dire la base materiale e culturale dello
scontro con la destra che attraversa l’intera realtà e che chiede di
essere organizzata in un’alternativa compiuta. Dentro questo scontro
si possono ben vedere anche le ragioni di unità e di competizione,
di sfida tra i riformisti e noi. I riformisti hanno sovente la
propensione ad annettersi ciò che chiamano il timone dell’Unione
cioè dell’alternativa a Berlusconi. Ne capisco la ragione, ma non
sono d’accordo.
Né penso che bisogna replicare con qualche rivendicazione uguale e
contraria. Non credo cioè che neanche sia opportuno rivendicare per
noi quel timone, ma sì per l’intero popolo dell’unione. Dove deve
stare il timone, lo decida la democrazia e la partecipazione. Io
penso che la stessa guida di Prodi sarebbe esaltata da una crescita
della partecipazione e della democrazia. E la lezione della Puglia e
oggi si vede bene il senso della vittoria di Niki.
Essa non è tanto la vittoria di una parte, di un leader radicale,
comunista quanto del suo radicamento nel popolo. E’ dunque una
vittoria del popolo e della partecipazione che può diventare una
grande occasione per il cambiamento. Il timone, naturalmente in
senso figurato, lo prenderà in ogni caso concretamente, di fatto,
chi saprà rispondere più efficacemente ai due quesiti che ci stanno
innanzi: 1) come cacciare il governo Berlusconi, 2) come costruire
una alternativa, a lui e alle sue politiche. C’è a questo proposito,
una domanda ineludibile.
La domanda è: si può pensare di essere presenti nella politica reale
del paese a livello di massa senza raccogliere la domanda più
diffusa nel popolo, in tutto il nostro popolo, quella di cacciare il
governo Berlusconi? La risposta è semplice: no, non si può. Chi non
fosse in grado di contribuire a realizzare questo obiettivo verrebbe
cancellato dalla scena della politica e dal rapporto di massa.
Aggiungo, giustamente. Al contrario Rifondazione Comunista ha
acquistato un ruolo politico significativo e un’influenza sul corso
degli avvenimenti di questa stagione politica perché ha compiuto con
chiarezza questa scelta. Noi ci siamo.
È questa scelta che ci ha consentito e ci consente di porre il
problema del livello della qualità e dell’iniziativa
dell’opposizione a Berlusconi. È questa scelta che ci ha consentito
di lavorare alla costruzione di un’alternativa unitaria alla destra
in tutte le regioni, in elezioni importanti per il governo del
territorio e di particolare rilievo politico, e mancandola in una
sola regione la Toscana, per un’incomprensibile e grave veto
pregiudiziale da parte dell’Ulivo e realizzando invece una
bellissima irruzione, nella Puglia, della democrazia partecipata,
nella formazione della candidatura a presidente e dove per la prima
volta un uomo nostro della sinistra radicale, dal profilo originale
quanto promettente, rappresenta l’intera coalizione. Buona fortuna,
Niki.
Ma è questa scelta che ci consente di favorire in molte regioni, a
partire da vicende come quella di Altra Lombardia, esperienze
importanti di nuova partecipazione alle istituzioni. È questa scelta
che ci consente di porre le grandi questioni programmatiche su un
terreno di confronto, senza chiusure pregiudiziali e aperto alla
partecipazione dei movimenti, delle esperienze sindacali, delle
associazioni. A chi ci dice: uniti per sconfiggere le destre,
abbiamo potuto rispondere si, d’accordo, ma adesso diciamo per fare
che cosa, diciamo quali sono i nostri grandi obiettivi per la
riforma sociale del paese. Insomma, vogliamo contribuire a vincere
contro le destre non solo per loro demerito, per la denuncia dei
guasti che hanno prodotto, ma anche e in primo luogo per
l’alternativa di società di cui vogliamo essere portatori.
Solo così si può evitare la legge perversa del pendolo che sembra
aver investito l’Europa e da cui è necessario uscire per risollevare
la politica e riportarla a vivere nella società a partire da luoghi
del disagio e dalle domande di cambiamento. La legge del pendolo
descrive una situazione in cui quando le destre stanno da tempo al
governo il malcontento si fa così vasto e profondo da far tornare ad
addensarsi sulle sinistre una grande aspettativa, una speranza
forte. Ma se le sinistre portate al governo da questa ondata, si
dimenticano delle ragioni del cambio e fanno politiche non troppo
dissimili dalle destre, allora si opera una nuova crisi di fiducia e
un’abbandono che ti può perdere ed aggravare la crisi della
politica. È ciò che è accaduto nelle ultime tornate elettorali in
pressoché tutti i paesi dell’Europa continentale.
La legge del pendolo deve essere spezzata. Cacciare Berlusconi per
dar vita ad un nuovo corso riformatore è perciò il nostro obiettivo
politico. Capisco anche la preoccupazione che c’è in alcuni settori
del partito sulla questione del governo. Esperienze interne e
internazionali ci costringono ad essere sorvegliati. Non ci sono
garanzie contro i rischi, se non nella costruzione dei rapporti
sociali che alimentino un reale processo di riforme. Ma per
affrontare il passaggio con successo il primo punto riguarda noi.
Con quale cultura politica noi lo affrontiamo? Viene qui a
maturazione un elemento di cultura politica a cui abbiamo molto
lavorato proprio dentro le esperienze di movimento: non con quella
della centralità del governo, ma con quella della centralità della
partecipazione, dell’autonomia e della democrazia. Il nostro centro
consiste nel far emergere nella società, nei conflitti, nei
movimenti, nella disobbedienza il motore della riforma del paese.
Abbiamo acquisito in questi anni una cultura politica che ci fa
capaci di leggere criticamente la presunta centralità del potere
politico istituzionale. Abbiamo reimparato e detto che il potere non
è neutro, una macchina non è buona o cattiva a seconda di chi la
guida, sebbene decidere la guida è compito ineliminabile e assai
importante della politica e della democrazia rappresentativa.
La critica al potere e ai suoi meccanismi non si sospende neppure
nei confronti del proprio governo, essa deve invece vivere come
parte del progetto di cambiamento. Abbiamo molto lavorato sulla
nostra cultura politica in rapporto alla nostra esperienza nei
movimenti e con i movimenti. Dobbiamo saperla mettere a frutto in
questa nuova fase che vogliamo aprire: il governo per noi non è lo
sbocco politico che proponiamo ai movimenti né che diamo al nostro
progetto politico. Noi partiamo dalla necessità, senza la quale
nessuno può avere spazio politicamente a sinistra, di battere il
governo Berlusconi e perciò di dover contribuire a costruire
un’alternativa di governo e consolidiamo questa esigenza
sull’analisi di un’Italia ad un bivio dentro un’obiettiva
radicalizzazione della contesa.
In questo quadro, la presenza del PRC in una maggioranza
parlamentare e in un governo non è lo sbocco di una politica ma un
passaggio che vive in funzione della crescita di un progetto
riformatore nel paese, in funzione della crescita dell’incidenza dei
movimenti e delle lotte nella realtà sociale come sulle scelte
politico-istituzionali.
Veniamo ora all’altro quesito su cui si gioca lo scontro tra destra
e sinistra nel paese, ma anche la sfida tra riformisti e sinistra
radicale. E’ il tema grande dell’uscita dalla crisi, della
fuoriuscita dalla tendenza al declino. Noi pensiamo che proprio la
natura di questa crisi richieda di intraprendere il cammino non solo
di qualche correttivo al sistema produttivo, ma di una vera e
propria alternativa di società, cioè una nuova stagione di riforme
sociali, economiche e democratiche.
Quando si mette l’accento sul cambio di paradigma si sa di porre una
questione assai difficile e si sa che esso non può avvenire da un
giorno all’altro. La difficoltà e la complessità di una riforma di
questo genere richiedono che venga accettata fino in fondo la
gradualità del cambiamento ma, allo stesso tempo, richiede che siano
acquisite la radicalità della critica all’ordine delle cose
esistenti e la profondità dei cambiamenti richiesti per superarlo.
Conterà molto la scelta di collocazione geopolitica del paese e
dell’Europa.
L’assunzione di una centralità del Mediterraneo non è solo un
potente anticorpo al conflitto di civiltà, un contributo al dialogo
interreligioso, è un’idea dell’Italia come ponte, questo si reale e
forte, non quello grottesco sullo stretto, un ponte tra nord e sud,
tra l’Europa e i paesi arabi. Una piattaforma di pace ma anche la
base di operazione economica e sociale. Il sud vedrebbe riaprirsi
una chance storica, fuori dalla colonizzazione dei nord, per
sviluppare le sue risorse anche come nuovi fattori d’impresa e di
nuova economia. Qualcosa già avviene spontaneamente nella
valorizzazione di intraprese intelligenti, nel rapporto con la
terra, il territorio e le culture. Non solo per certi vini o per
alcune produzioni di eccellenza si può crescere dov’era imprevisto e
negato.
Può crescere la produzione di beni materiali e immateriali che
privilegiando i cicli corti creino nuovi rapporti tra consumatori e
produttori. Può crescere l’agricoltura di qualità, con la sapienza e
la scienza di culture antiche e capaci di parlare del futuro di
un’umanità non asservita agli organismi geneticamente modificati e
alle mucche pazze e alle multinazionali delle razzie. C’è una
riscoperta nel mondo che ne costituisce l’ambiente favorevole come
ha saputo indicare l’incontro di terra madre, organizzata da slow
food a Torino, dove 5000 contadini venuti da tutto il mondo hanno
parlato il linguaggio di una rinascita possibile delle agricolture
dei territori se, sottratte al dominio del mercato.
L’ambiente entra nell’economia chiedendole un’innovazione profonda,
simile a quella richiesta dalla conoscenza. Ci sono beni e servizi
che chiedono per non morire nella mercificazione generale di non
essere trasformati anch’esse in merci, ma di essere sottratti al
dominio del mercato, come risorse potenzialmente a disposizione
dell’intera comunità per essere messe in circolazione direttamente
come valori d’uso. E’ il tema proposto dall’eccezione culturale che
chiede una protezione dalla colonizzazione esterna. Esattamente come
l’organizzazione sociale, dalla formazione, alla salute, alla
previdenza, all’assistenza, che, per avere cura delle persone, può
far crescere la società intera. Del resto l’operazione di sottrarre
al mercato per dare alla comunità, per restituire attraverso la
società allo sviluppo beni e servizi altrimenti indisponibili è
quella già fatta del movimento operaio con la conquista dello stato
sociale.
Ora il mercato lavora a riprenderselo ma, come abbiamo visto, questo
porta alla crisi. Dunque non è infondato, anzi è necessario,
lavorare ad un nuovo stato sociale, che a partire dalla difesa delle
vecchie conquiste esplori nuovi territori. Due ci sembrano decisivi
per una fuoriuscita, anche in Italia, dalle politiche neoliberiste e
per cominciare a dare risposte alle nuove domande emerse dai
movimenti. I beni comuni e i diritti di cittadinanza universali
dentro e fuori il lavoro. I beni comuni a cominciare dall’acqua già
stanno vedendo crescere una straordinaria esperienza come quella per
il contratto mondiale, delle molte iniziative nei territori, delle
lotte contro le privatizzazioni, degli incontri tra popolazioni ed
esperti che fanno crescere una nuova cultura del pubblico.
I diritti di cittadinanza universali, a partire dal diritto alla
democrazia e al conflitto sociale, debbono rappresentare una nuova
dotazione della società alle persone, a tutte le persone, una specie
di zainetto personale con dentro diritti che sono proprio i tuoi,
con i quali attraversare il lavoro e la vita. I beni comuni e i
diritti di cittadinanza universali sono i due pilastri di un nuovo
compromesso sociale democratico e l’inizio di una ridefinizione del
carattere misto dell’economia del paese. Per questa ridefinizione e
per fissare gli obiettivi di società occorrerebbe una programmazione
capace, in particolare, di definire i nuovi compiti del pubblico, e
di concorrere a realizzare i suoi obiettivi generali, a partire da
una piena occupazione di qualità.
A questi obiettivi di programma il pubblico dovrebbe concorrere
direttamente, mentre parallelamente, dovrebbe convenire obiettivi
condivisibili, a determinate condizioni, con lo stesso sistema delle
imprese, come, per esempio, quello di perseguire l’innalzamento
della collocazione del paese nella divisione internazionale del
lavoro. Su questo terreno, non economie collettivistiche, ma
poderose economie capitalistiche, in forme diverse dalla Francia ai
paesi scandinavi, stanno rilanciando l’intervento pubblico per
salvaguardare i grandi assi strategici del paese. I fatti hanno la
testa dura.
Prima o poi se si vorrà affrontare davvero la crisi della Fiat,
pensando in primo luogo al destino dei lavoratori, il tema
dell’intervento pubblico si porrà con forza tanto maggiore quanto
più si farà grave la situazione. Dalle condizioni della popolazione,
dallo stato del paese, dai settori tradizionali come da quelli
dell’innovazione e, ancor di più, per affermare prime scelte di un
futuro diverso ciò che emerge è la necessità della grande riforma.
Anche il fisco ne sarebbe coinvolto non secondo il peronismo dei
ricchi della riduzione delle tasse per chi già stava in una
condizione di privilegio, come ha fatto recentemente il governo, ma
secondo giustizia sociale e secondo la necessità di finanziare
obiettivi utili socialmente e strategicamente per la società. Le
tasse non sono nè buone nè cattive in sé. Dipende se servono a dare
servizi buoni e gratuiti a tutta la collettività. Dipende se servono
a correggere le ingiustizie distributive, e riequilibrare la
distribuzione del reddito a favore dei lavoratori, dei ceti bassi e
medi bassi. Dipende. Certo quel che non dipende, è il giudizio sul
sistema fiscale italiano dove l’evasione fiscale e contributiva
raggiungono livelli sconosciuti negli altri paesi. Molti anni fa, un
gran borghese, ministro delle finanze, dunque uno che se ne
intendeva, Bruno Visentini, disse questo sistema fiscale fa schifo.
Sono passati tanti anni: lo schifo è solo aumentato.
E’ necessario un segno chiaro di cambiamento. La parola patrimoniale
se fa inorridire, non la useremo. Rifacciamo un discorso di
sostanza: il paese è impantanato e gigantesche ricchezze accumulate,
spesso disinvoltamente, si rivelano improduttive. Proponiamo di
realizzare un intervento fiscale modulato, coordinato su più voci di
prelievo sulle rendite (rendita che gode di una intollerabile
condizione di privilegio rispetto al salario) per finanziare un
piano di ricerca strategica per il futuro del paese. Ci piacerebbe
conoscere, a questo proposito, anche l’opinione della borghesia
produttiva.
O l’alleanza con la rendita vale di più di una risorsa strategica
per l’intero paese? In ogni caso per noi oggi ogni discorso sulla
redistribuzione dei redditi non parte dal fisco ma dai salari.
L’aumento dei prezzi ha abbattuto il potere d’acquisto delle
retribuzioni. La gente fatica a vivere. La domanda interna diventa
essa stessa una componente della crisi economica. E’ aperta nel
paese una grande questione salariale. Ormai tutti se ne dicono
consapevoli. Ma non accade nulla. Non possiamo aspettare la caduta
di Berlusconi. I sindacati hanno le loro piattaforma. Proponiamo che
l’Unione apra una campagna di mobilitazione sul potere d’acquisto,
per l’aumento di salari, stipendi e pensioni e per la conquista del
salario sociale.
La grande riforma è una prospettiva europea, può essere l’inizio di
un nuovo cammino per l’Italia. E’ una prospettiva necessaria al
paese, questo è evidente. Ma è anche possibile? Questa è la domanda.
Noi pensiamo che la risposta sia si. Non sulla base di un desiderio
ma sulla base di ciò che è cambiato in questi anni nella società
italiana, di come la società civile si è arricchita di esperienze,
di domande e di attese partecipi. Non solo nel mondo, come abbiamo
già avuto occasione di dire, ma anche qui, in Italia, alla fine del
secolo scorso la partita era sembrata chiusa ai fini della
trasformazione, anzi ciò che era stato chiamato il caso italiano,
per definire così un’accumulo eccezionale di democrazia partecipata
e di mutamenti sociali, era stato chiuso.
Ora anche in Italia, all’inizio del nuovo secolo la partita si
riapre. La riaprono i movimenti, a partire dal movimento dei
movimenti. Ne abbiamo discusso lungamente, a fondo e continueremo ad
indagarne la natura e la crescita. E risultata confermata la
percezione che è nata e cresciuta dentro le diverse tappe che il
movimento si è dato e che ogni volta lo hanno aperto ad un mondo
diverso, fino a quello degli ultimi, dei sud dei sud che ne sono
stati i protagonisti a Bombay: la percezione di un movimento
durevole, di lungo corso. Il movimento della pace da esso ha preso
le mosse e lo ha trasceso in un linguaggio e culture proprie. Le
bandiere arcobaleno che ne hanno accompagnato, in perenne
esposizione, un’intera fase, si sono poi abbassate e innalzate
secondo la diversità dei passaggi, mai ammainate.
Il movimento per la pace resta il principale antagonista della
guerra e del terrorismo e alimenta ogni soggettività politica che si
ponga il problema della loro sconfitta. Il conflitto sociale è
riemerso contro le politiche neo-liberiste, in lotte specifiche e
generali organizzati dai sindacati. In Italia ha coinvolto, in
questi ultimi mesi, in forme diverse milioni di lavoratrici e
lavoratori. In questa cornice si affermano nuove soggettività e con
esse anche nuove forme di militanza politica, nel sindacato come nel
mondo dell’associazionismo. Cito per tutta l’esperienza del più
grande sindacato industriale del Paese, la Fiom, e della più grande
delle associazioni, l’ARCI che da Genova ad oggi hanno dato vita,
dentro storie antiche, a nuove storie.
Penso anche alle nuove esperienze di lotta sociale, spesso
portatrici di un inedito carattere comunitario, che sono venuti alla
luce da Scansano ad Acerra, da Terni a Terlizzi, da un conflitto di
lavoro radicale a una lotta ambientalista. Esse erano state già
annunciate anche da lotte sconfitte che preparavano però una nuova
stagione. Ricordo, per l’importanza che ha avuto a questo proposito,
il voto di massa nel referendum per l’estensione dell’articolo 18.
Richiamo qui la vicenda di Melfi per fissare il carattere di un
evento.
La condizione sociale nella fabbrica di Melfi non era nata in quel
momento, c’era da 10 lunghi anni: meno salario degli altri
lavoratori FIAT, turni di lavoro insopportabili e carichi di lavoro
superiori; sistema di controllo e repressione senza uguali. E questo
allo stesso modo per 10 anni, quasi senza un’opposizione dei
lavoratori capace di squarciare il muro del silenzio dei cancelli
della fabbrica. C’è però anche chi lavora per la rinascita del
conflitto e del protagonismo dei lavoratori. E il nostro ricordo va
in particolare a un compagno come Claudio Sabattini. Dopo 10 anni,
scoppia lo sciopero ad oltranza quando quel popolo di operaie e
operai dice: "Io non ci sto più!" .
E promuove uno sciopero inconsueto perché rovescia alla Fiat la
modalità classica della lotta sindacale in Italia, che è quella
dello sciopero articolato. Promuove la forma dello sciopero ad
oltranza, opponendo, alla violenza del potere di controllo e
repressione, la forza della coalizione, della comunità dei
lavoratori. Subisce le cariche e pratica lo piazzamento della
nonviolenza. La provocazione dei pulman che dovrebbero portare i
crumiri al lavoro cade perché essi restano vuoti, mentre la
repressione militare viene aggirata dall’assemblea e i lavoratori
vincono, secondo la più classica delle antiche regole del movimento
operaio "resistere un minuto in più del padrone". Perché, allora?
Per molte ragioni, la prima delle quale è perché è cambiato il
vento! Il vento del sud, il vento prodotto dall’incontro tra ciò che
stava maturando in particolare proprio al sud e l’onda lunga dei
movimenti. Ma il vento non basta e neppure basta l’articolazione di
posizioni che la contaminazione del movimento ha prodotto a sinistra
anche rompendo la linea di demarcazione tra riformisti e radicali e
determinando anche nuove forme di cooperazione politica come quelle
recenti e assai interessanti della Camera di consultazione e della
esperienza di confronto tra alcune riviste da Carta, a Aprile, ad
Alternative, ad altre ancora. Ci piacerebbe che questa
collaborazione prendesse ora la forma di una fondazione anche per
ricordare una bella persona con cui abbiamo camminato insieme fin da
Genova e che, purtroppo, non è più qui con noi, Tom Benetollo.
No, non basta quello, ed è tanto, che è cambiato già col movimento:
non basta, e non solo per i limiti, i ritardi da noi tutti espressi
nella costruzione del movimento. Soprattutto non basta alla luce di
un’osservazione sullo stato del movimento e sul rapporto tra esso e
la durezza di processi in cui siamo immersi, osservazione critica a
cui, credo, non possiamo sfuggire. C’è ancora una diversa velocità
tra, da un lato, i processi reali e le scelte che in essi si
compiono da parte dei poteri forti, e dall’altro lato, la crescita
dei movimenti.
Si tratta di un problema su scala mondiale, europea e italiana, un
problema reale. Un problema politico di prima grandezza. Si
mobilitano le masse dei popoli della pace, ma la guerra e il
terrorismo continuano la loro opera di morte. Lotti contro la
politica del governo, ma il governo adotta nuove misure
neoliberiste. Scioperi, manifesti ma loro ti negano il contratto.
Occupi le case per dare alloggio a chi non ne ha e loro aumentano la
spinta speculativa. Certo non è tutto così, ho fatto l’esempio di
Melfi per dire delle tante lotte di conquista. E mille sono le cose
che le lotte stano cambiando nel paese e più di mille sono le realtà
che si collocano già fuori dal condizionamento delle politiche neo-
liberiste e che danno vita ad una esperienze inedite che potremmo
chiamare di nuova civiltà.
Ma la tendenza rischia di sovrastarci. Non ci sono soluzioni
miracolistiche al problema. Ma, in una più ampia partecipazione di
movimento su scala mondiale ed eurpea, qui in Italia due direttrici
di lavoro emergono come necessarie. La prima parla del lavoro
politico per la crescita del movimento sia in direzione di un forte
radicamento nel territorio che di una sollecitazione
all’organizzazione di forme originali di democrazia partecipata.
La connessione, la rete dei movimenti può diventare una realtà che
tiene stabilmente assieme conflitti sociali, movimento per la pace,
movimenti no-global verso la costituzione di un movimento unitario e
plurale di trasformazione della realtà. Il movimento dei movimenti.
È necessario fare dei passi in avanti. Se il 1° maggio e il may-day
si congiungeranno già nelle prossime feste del lavoro o almeno
convergeranno in obiettivi di lotta comuni e in manifestazioni
unitarie, questo sarebbe un buon inizio.
La seconda ci fa tornare alla questione del governo, come di un
passaggio che se da un lato si carica dell’ambizione di avviare una
politica di riforma dall’alto, dall’altro lato assume l’ambizione
persino più grande di favorire l’articolazione delle politiche di
riforma, il controllo sociale dal basso, il controllo sociale sul
lavoro la nascita di forme di autogoverno, la costituzione in realtà
di nuovi fattori di organizzazione dell’economia, contenenti la
valorizzazione delle persone, dell’ambiente, della cultura. Perciò
il punto programmatico dell’alternativa al governo Berlusconi
dovrebbe essere: promuovere la democrazia e favorire le autonomie.
Promuovere la democrazia, a partire da quella delle lavoratrici e
lavoratori nei luoghi di lavoro.
Si capisce che proponiamo un cammino inesplorato, un cammino di
profonda innovazione. Ci sorregge l’idea che lo condividiamo con
molti altri con cui siamo cresciuti insieme in questi anni, con cui
abbiamo condiviso da Genova a qui, un’azione e una ricerca. Ci
sprona l’idea forte che si tratta di un passaggio necessario per il
paese e che esso può diventare l’occasione per una incidenza dei
movimenti e delle lotte sulle scelte strategiche e sui processi
materiali. Un passaggio traguardato, per noi, ecco ancora ritornare
in termini nuovi un’antica sfida, traguardato per noi alla
ricostruzione di una politica pensata e praticata al fine di far
riemergere, per entrare nella politica il tema della trasformazione
della società capitalistica. Quando abbiamo pensato all’obiettivo di
un’altra Europa, abbiamo costruito il partito della Sinistra
Europea.
E ora lo vediamo crescere nell’attenzione e nell’adesione in Italia
di compagne e di compagni, di intellettuali, di militanti non
iscritti a Rifondazione è però interessati al progetto e lo vediamo
crescere nelle campagne che ci impegnano come Partito della Sinistra
Europea, sugli stessi temi e sugli stessi obiettivi, nei diversi
paesi europei, come nella impegnativa campagna contro il trattato
costituzionale europeo proprio in nome dell’Europa di cui abbiamo
così tanto bisogno. Così oggi di fronte a questa nuova prospettiva
che il congresso ci ha incoraggiati a perseguire, sentiamo ancor più
l’esigenza di contribuire a creare in Italia una sinistra radicale
capace di essere un soggetto largo, unitario e plurale, impegnato
nella ricostruzione di un ciclo riformatore, in cui si coniughino
radicalità e gradualità, processo e trasformazione, democrazia e
cambiamento.
Non c’èbisogno di ribadire il nostro fastidio a proposito della
sinistra di alternativa per tutte le improbabili proposte
organizzativistiche peggio se limitata al solo campo dei partiti.
Noi pensiamo il contrario, pensiamo che una forza di sinistra
radicale, di alternativa possa prendere corpo, rispondendo alla
crisi della politica, avviando la riforma della politica,
riconoscendo la pluralità delle esperienze anche nelle diverse forme
di organizzazione che la politica è venuta prendendo (partiti,
associazioni, espressioni sociali, sindacali, comunitarie, giornali,
organismi di ricerca) E riconoscendo anche le diverse forme che ha
preso la militanza.
La Sinistra di alternativa non chiede solo un salto nelle culture
politiche, ma anche nelle forme di organizzazione della politica. Le
convergenze programmatiche più volte verificate con la sinistra DS,
la sintonia di tanti discorsi dicono che neppure il confine tra
partiti riformisti e sinistra radicale può essere assunto come
confine impedente. Lavorare sulle esperienze, sulle culture
politiche, sull’iniziativa politica; lavorare e cercare insieme è la
via maestra. Noi intendiamo perseguirla fino in fondo, con il
massimo di apertura.
Partito della Sinistra Europea e Sinistra di Alternativa sono,
seppure diversamente, parte della stessa ricerca: la ricerca di un
partito, quello della Rifondazione Comunista, che lavora su una
doppia apertura su di sé e nei confronti degli altri interessati
alla stessa ricerca: l’idea è l’uscita da sinistra dalla crisi del
movimento operaio con la creazione di una soggettività politica
capace di portare la sinistra di alternativa fuori dalla minorità,
per guadagnarle il ruolo di protagonista nella vita del paese e
dell’Europa. La politica di unità e di competizione con la sinistra
riformista poggia su una esigenza reale del paese e può essere
condotta con successo solo in una prospettiva, quella della
costruzione di una sinistra di alternativa che restituisca alla
politica un senso forte, la capacità di cambiare la vita e la
società. Ho finito.
Dedicheremo allo stato del partito tutta la cura di cui siamo capaci
anche in un’impegnativa conferenza di organizzazione. Non ne parlo
dunque qui. Ma lasciatemi dire una sola cosa. Questa è la mia ultima
relazione ad un congresso del PRC e vorrei allora dirvi che possiamo
essere contenti, in un certo senso paghi almeno di un risultato che
considero eccezionale. Abbiamo avuto l’emozione che ancora ci lascia
stupefatti di un dono prezioso: l’adesione al PRC del più
prestigioso leader della sinistra italiana Pietro Ingrao. Un
dirigente comunista che ha attraversato tutto il dopoguerra
lasciandoci una lezione straordinaria e incontaminata e un sogno di
futuro.
Ma abbiamo avuto in questi ultimi anni anche il dono della venuta
alla luce, anche in ruoli di direzione del partito, di una nuova
generazione di militanti, quelli di Genova. La prima generazione
autoctona e perciò apertissima al mondo. Una generazione ribelle,
disobbediente e comunista. E comunista perché disobbediente e
ribelle, frutto, se posso dirlo, della connessione tra gli strappi,
la rifondazione della cultura del PRC a partire da quella portata
dal femminismo e la presenza attiva, continuativa, interna ai
movimenti.
Qualche anno fa se uno voleva dire una cosa ambiziosa per la cultura
del partito, indicava l’obiettivo, che appariva lontano, di superare
le culture di provenienza dalle diverse formazioni in cui compagne e
compagni avevano militato, per dar vita ad una politica almeno
prevalente su quelle una cultura politica comune. Qualche settimana
fa in un congresso ho sentito giustamente mettere a valore il totale
superamento di quelle culture nell’attuale cultura di Rifondazione.
Mi aspettavo un grande applauso, c’era una concentrata attenzione,
invece niente. Poi ho capito. Per la gran parte dei congressisti
quella conquista è così acquisita da non destare emozioni. Vorrei
allora ricordare per ringraziarle, tutte e tutti, le compagne e i
compagni che hanno concorso a questo esito anche quando esso
sembrava assai problematico. E per tutti un compagno a cui abbiamo
voluto bene, Livio Maitan. Ora qui siamo giunti. E c’è qui
finalmente tutto il futuro del PRC. C’è l’affacciarsi di una
generazione di compagne e di compagni che può dirigerlo al centro
come nelle periferie, creativamente, su questa ispirazione di unità
e radicalità, di rinnovamento della tradizione e di una nuova
ricerca sul comunismo, nella centralità ormai acquisita dei
movimenti.
Il dentro o fuori, lo star dentro o fuori i processi segnati dal
dominio dell’avversario ha sempre perseguitato i comunisti, i
socialisti di sinistra col rischio di vedere alternare l’emergere
del massimo di criticità quando si è fuori dalla determinazione dei
processi e dal potere, per vederla però ridurre drasticamente, fino
alla accettazione della realtà, quando ci si colloca all’interno.
Questa generazione ha imparato, dal movimento, l’essenziale: stare
dentro la realtà, ma sempre con il massimo di criticità, per
influenzare la realtà, per cambiarla. Provare e riprovare, diceva
Gramsci, è il compito del rivoluzionario. Vorrei fosse la cultura di
tutta Rifondazione, ma intanto è la suggestione forte di una nuova
generazione che si affaccia nella realtà diffusa e alla guida di
Rifondazione. Un bel manifesto annunciava il congresso del Partito a
Napoli.
Era un’immagine di grande dinamicità, tensione e intensa
solidarietà: in una gara sportiva, in una corsa a staffetta, fasce
muscolari tendono due mani a passare e ricevere il testimone. Si
capisce che il testimone passa in buone mani.
Buona corsa, compagne e compagni!
Messaggi
1. > PRC: RELAZIONE INTRODUTTIVA DEL SEGRETARIO NAZIONALE FAUSTO BERTINOTTI, 8 marzo 2005, 04:04
Vi dividete con molta rabbia, da una parte i comunisti duri che stanno contro bertinotti. Dall’altra quelli moderni che stanno con lui. Faccende interne a un partito che voto ma non frequento. Ho altro a cui pensare, il comunismo è roba del secolo scorso. Nel 2222 bertinotti supererà anche questo scoglio, questa definizione che non ha più ragion d’essere.
Io, che la so moooooooltoooooo lunga, io vi dirò la verità.
Bertinotti è un grande, quasi un genio, immaginatevi il capo dei troschisti ferrando o qualcun’altro dell’opposizione interna, qualcuno di questi che si lamentano di scarsa democrazia nel partito, immaginatevi uno di questi a capo di rifondazione... il partito scenderebbe al due per cento in tre giorni. E sarebbero contenti i comunisti, quelli veri, quelli che credono alla rivoluzione del popolo che insorge,
quelli per un partito piccolino inutile e incazzato col mondo, quelli che dormono col pugno ben chiuso sul cuscino. Invece Bertinotti! Che stile!
Apre il congresso con get up stand up dell’immenso Bob Marley, (il cd glielo ha dato il figlio ottimo dj reggae), le canzoni belle e giuste, queste sono le cose importanti della vita! Avere qualcuno, che come bertinotti, qualcuno che sa scherzare senza dirlo, sa tenere la parte, qualcuno che ha capito quello che marx aveva lasciato intuire: la vita è un palcoscenico! Qualcuno che va da vespa col chilum in tasca, qualcuno che è dei nostri, per davvero non distingue la realtà dall’apparenza.
Chi non si dispone all’allegria del cambiamento e all’ incoerenza delle passioni, resterà un povero scemo colmo di risentimento, una creatura inutile antagonista anche a sè stessa, e vi dico di più quando bertinotti dice che forse dio c’è, dice una grande verità, perchè i comunisti, quelli eclettici e critici, prima di tutto sono uomini di fede e buona volontà. Chi non stupisce non insegna.
Il vostro bernardo....