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"L’Ernesto" e il novecento sovietico : tra apologia staliniana e rimozione della storia
Publie le giovedì 17 febbraio 2005 par Open-PublishingDazibao Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi
di Ok. Tober
La mozione congressuale presentata dall’area dell"Ernesto" risulta estremamente vaga nella valutazione degli aspetti critici dell’esperienza del movimento comunista soprattutto laddove questo ha assunto la forma del potere statuale. Vi si scrive di "errori", di "processi degenerativi" e di "pagine buie" senza nominare nemmeno sommariamente ciò di cui si sta parlando. Gli estensori del documento dichiarano - nientemeno - di avvertire "ogni giorno l’esigenza di capire meglio ciò che avvenuto".
Ci si chiede - e ci si perdoni un po’ di ironia - se, passati quasi cinquant’anni dal XX Congresso e dall’Ungheria, quasi quaranta dalla Cecoslovacchia, quindici dal crollo dell’Unione Sovietica e del blocco dell’Europa orientale, questa esigenza avvertita "ogni giorno" non dovrebbe aver prodotto qualcosa di più di vaghi ed ermetici riferimenti alle "pagine buie". Ma, accantonata per il momento l’esigenza di capire - pur, come si è detto, avvertita ogni giorno - l’obbiettivo politico principale dell’"Ernesto" è porre un argine al "revisionismo storico".
Anche la definizione di "revisionismo storico" è molto vaga. Che cosa si vuole indicare con questa etichetta? In essa ci può stare il famigerato "Libro nero del comunismo", prodotto di una operazione ideologica che dalla condanna decontestualizzata e destoricizzata del cosiddetto"socialismo reale", vuole risalire ad una criminalizzazione di qualsiasi forma di critica del capitalismo e di aspirazione alla trasformazione della società. Ma ci finiscono anche tutte le analisi di orientamento marxista o genericamente di sinistra che si sono sforzate di capire l’evoluzione - o meglio l’involuzione - del potere sovietico rispetto alle aspirrazioni di liberazione contenute nella rivoluzione d’ottobre.
Questi ultimi sono tentativi di analisi che, contrariamente a quanto si vuole a volte far credere, non nascono dal crollo dell’Unione Sovietica come adattamento all’egemonia della corrente liberista, ma sono radicate in tutta la storia del movimento operaio e comunista, anche se per molti anni sono state spesso cancellate, ignorate o soffocate con la violenza. L’analisi critica dell’esperienza sovietica e in generale dei partiti comunisti al potere viene ricondotta nella mozione dell’"Ernesto" alla volontà di "cancellare o ridurre le colpe della borghesia". Queste analisi critiche non vengono analizzate per ciò che dicono e per il loro apporto indispensabile al processo di rifondazione comunista e di costruzione di una nuova sinistra anticapitalista, ma accusate di essere strumento - più o meno volontario - del nemico di classe.
La reticenza della mozione non deve far pensare che non ci sia alle spalle di questa corrente politica un pensiero e una presa di posizione sull’URSS staliniana e post-staliniana e su quello che si è chiamato impropriamente "socialismo reale". Per questo diventa utile analizzare un volume di recente pubblicazione da parte della "Città del sole" che raccoglie gli atti di un convegno tenuto a Napoli nel novembre del 2003. Trattandosi di un testo di oltre 400 pagine, e non direttamente inserito in un dibattito congressuale, consente di fornire elementi importanti sul substrato culturale che sostiene le posizioni politiche dell’Ernesto.
Il libro, intitolato "Problemi della transizione al socialismo in URSS", in sénon apporta quasi nulla di nuovo dal punto di vista della conoscenza storica. Forse solo il saggio di Alexander Hobel presenta una qualche utilità, ricostruendo una rassegna di posizioni e analisi sulla crisi e il crollo dell’Unione Sovietica. L’interesse del libro non sta tanto in ciò che cerca di dire sul proprio oggetto, quanto come espressione del punto di vista di una specifica corrente politica in merito all’oggetto stesso. Va detto che siamo in presenza di una certa articolazione di tesi e di una varietà di sfumature anche se all’interno di quello che si configura come un paradigma comune.
Esamineremo con più attenzione alcuni saggi prodotti da esponenti intellettuali e politici dell’area dell’Ernesto, quali Domenico Losurdo, Andrea Catone (che è anche curatore del volume), Fausto Sorini, Alessandro Leoni. E’ soprattutto a questi che rivolgeremo la nostra attenzione, anche se il loro accompagnarsi, senza alcuna distanza critica, a testi di ancora più esplicita apologetica staliniana è comunque indicativo dell’esser parte di un comune sentire, al di là delle differenze di analisi.
Hegel e la frittata di Losurdo
Domenico Losurdo, che ha alle spalle un importante background di conoscenze filosofiche ed è anche un sostenitore dell’Ernesto, di cui ha sottoscritto la mozione congressuale, si preoccupa di smontare quello che definisce il "mito della rivoluzione tradita". Evidente il riferimento al testo pubblicato da Trotsky a metà degli anni ’30. Ma questo mito - secondo Losurdo - accompagna la rivoluzione d’ottobre fin dall’inizio, da quando Bucharin attaccava duramente la pace di Brest-Litovsk, voluta da Lenin, e interpretata da quelli che al tempo venivano chiamati "comunisti di sinistra", come un abbandono delle prospettive di rivoluzione mondiale aperte dall’ottobre russo.
E’ evidente che per Losurdo non si pone il problema del "tradimento" della rivoluzione. La sua è una critica ai critici. Chi pensava che il regime post-rivoluzionario dovesse muoversi rapidamente lungo le prospettive di trasformazione sociale delineate dal marxismo rivoluzionario era preda di quello che Losurdo definisce il "messianismo rivoluzionario" o peggio ancora del "messianismo anarcoide". Sotto questa categoria vengono inseriti coloro che pensavano possibile un rapido superamento della questione nazionale, della famiglia o di un sistema economico basato sul denaro e sull’economia mercantile. Si trovano così mescolati la Kollontai, Bloch, Trotsky, Kautsky e altri.
A far barriera a questi "utopisti" si erge uno Stalin di cui Losurdo apprezza la "cautela", ma anche la capacità teorica di mettere in discussione il principio marxiano, ripreso e radicalizzato dal Lenin di "Stato e Rivoluzione", dell’estinzione dello Stato. Gli effetti pratici di questa "innovazione" sul ruolo dello Stato nel socialismo, vengono citati en passant da Losurdo, che accenna alla situazione dell’URSS nel 1938 "dove infuria il terrore e si dilatava mostruosamente il gulag". Ma non è di questo che ci occupiamo qui, precisa subito Losurdo, per poter introdurre la tesi chiave del suo saggio.
Da esperto di Hegel qual è, Losurdo introduce una spiegazione filosofica del "mito della rivoluzione tradita". Traendo spunto dal filosofo tedesco e dalla sua lettura della rivoluzione francese, recupera il concetto di "universalismo astratto". In ogni rivoluzione l’aspirazione alla trasformazione sociale produce una "dialettica" tra utopia "concreta" e utopia "astratta e fuorviante".
Scrive Losurdo, applicando la visione hegeliana alla rivoluzione d’Ottobre: "Nella situazione di esaltato universalismo che presiede all’abbattimento dell’antico regime, ogni divisione del lavoro comunque articolata, diventa sinonimo di esclusivismo, di sequestro dell’"autocoscienza universale" e della "volontà universale" ad opera di una minoranza burocratica e privilegiata".
Le analisi critiche che molti autori hanno rivolto allo stalinismo, mettendo l’accento sulla divaricazione tra progetto di liberazione proprio alla rivoluzione del ’17 e dittatura staliniana, vengono cancellate proponendo una "filosofia della storia" che a ben vedere serve a giustificare tutto ciò che accaduto. Così ad esempio l’analisi che Trotsky elaborò sulle radici burocratiche dello stalinismo (per quanto solo parzialmente soddisfacenti) vengono accantonate non in nome di un’analisi più convincente dello stesso fenomeno storico ma attribuendo il tutto ad una ideologia, "l’universalismo astratto", talmente vaga da trasformarla - direbbe lo stesso Hegel - "in un notte in cui tutte le vacche sono nere".
Ma dove il giustificazionismo acritico, diventa vera e propria mistificazione è laddove questa tesi viene ripresa per interpretare le ragioni del terrore staliniano. Fugacemente accennato da Losurdo per essere poi immediatamente messo da parte come fenomeno storico concreto, viene alla fine affrontato a partire dalla "grandeur" delle categorie hegeliane. Losurdo si muove al confine della spiegazione storica e di quella filosofica. Ma sia nell’uno che nell’altro caso scivola nella mistificazione se non nella vera e propria falsificazione storica.
"Nell’analisi di Hegel - scrive Losurdo - il Terrore è il risultato non della situazione oggettiva ma di un’ideologia, esso va messo sul conto in primo luogo del messianismo anarcoide, dell’universalismo astratto". E non si pensi che ciò valga solo per la rivoluzione francese a cui guardava il filosofo idealista. Questo principio si applica anche alla rivoluzione d’ottobre. In questo caso, precisa Losurdo, "non si deve perdere di vista lo stato d’eccezione permanente, provocato dall’intervento e dall’accerchiamento imperialistico, e dalle tre guerre civili che si sviluppano a partire dell’ottobre".
Qui sembra che il nostro autore tema che per un "marxista" (!?) far discendere un fenomeno storico complesso e duraturo nel tempo, non da una dinamica di forze storiche ma da un’ideologia sia forse un po’ azzardato. Peccato che si inventi l’esistenza di tre guerre civili, basandosi su una verità, una mezza verità e una menzogna. Per Losurdo le tre guerre civili sono: 1) quella contro i sostenitori dell’antico regime (vera); 2) quella che si sviluppa con la collettivizzazione (a metà falsa); 3) quella che lacera a ondate successive il gruppo dirigente bolscevico (falsa).
E’ del tutto evidente che inventarsi una guerra civile che scaturisce dal conflitto all’interno del partito al potere, presuppone l’esistenza di parti che lottano fra loro entrambe sul terreno della violenza. In questo quadro il terrore staliniano contro le opposizioni bolsceviche, contro gran parte del quadro dirigente del PCUS negli anni ’30 e contro centinaia di migliaia di comunisti del tutto fedeli al regime, viene legittimato come parte di uno scontro. Traducendo Losurdo senza sofismi "hegeliani": i bolscevichi se le davano di santa ragione, Stalin ne avrà data qualcuna di più, ma in fondo se non le avesse date, le avrebbe prese altrettanto forte...
Ma nell’analisi del teorico dell’Ernesto, deve restare centrale il nesso Terrore-universalismo astratto. Avendo già liquidato Trotsky, Losurdo introduce come altro esempio di "messianismo anarcoide" Rosa Luxemburg, la quale aveva più volte espresso una posizione decisamente ostile verso i movimenti nazionalisti. Alla posizione della Luxemburg viene contrapposto ancora una volta il saggio realismo di Stalin. Al di là del merito della questione vale la pena di citare tutto il passaggio successivo di Losurdo:
Giungiamo qui ad un risultato paradossale, almeno dal punto di vista dei consueti bilanci storici e degli stereotipi ideologici oggi dominanti. Nei confronti dei popoli che "emergono dai loro sepolcri secolari", secondo il linguaggio della Luxemburg, ovvero dei "popoli dimenticati", secondo il linguaggio di Stalin, è la prima a manifestare un atteggiamento più minaccioso e più repressivo. Naturalmente, per quanto attiene al giudizio su colui che ha realmente esercitato il potere, si tratta di vedere se e sino a che punto la prassi ha corrisposto alla teoria. Ma, limitando in questa sede il confronto alle enunciazioni teoriche, non c’è dubbio che a rivelarsi potenzialmente più carico di violenza è l’universalismo astratto della Luxemburg (...)."
Effettivamente in tutto questo c’è un paradosso: avvolgendo la storia con un gioco delle ombre filosofico si vorrebbe far credere che all’origine del terrore e della violenza che hanno caratterizzato il potere staliniano vi siano le concezioni ideologiche dei suoi oppositori. Trotsky, la Luxemburg, la Kollontai, Kautsky, tutti indistintamente colpevoli del peccato originale individuato da Losurdo: l’"universalismo astratto" o peggio ancora il "messianismo anarcoide". Il povero Hegel probabilmente non sarebbe particolarmente entusiasta nel vedere le sue raffinate e complesse costruzioni filosofiche utilizzate da Losurdo solo per rigirare una frittata.
Il bilancio "complessivamente positivo" di Stalin
Altri saggi si concedono all’apologia staliniana senza prenderla così alla lontana. Andrea Catone conclude una lunga e generosa analisi dell’ultimo testo di Stalin "Problemi economici del socialismo in URSS" con una valutazione complessiva del periodo:
L’URSS sotto la guida del gruppo dirigente staliniano riuscì a vincere battaglie decisive, prima di tutto quella di conservare una trincea rivoluzionaria. Riuscì a realizzare una transizione dall’arretratezza all’industrializzazione nel giro di pochi, decisivi anni, con il concorso partecipe e consapevole della parte più attiva e generosa della società (senza la quale i piani "tesi" sarebbero stati irrealizzabili). E, dunque, il giudizio storico che a distanza di mezzo secolo si può pronunciare su quell’esperienza non può non essere nel complesso positivo (sottolineatura nostra O.T). Al di là di errori e contingenze storiche, Stalin consolidò la vittoria della rivoluzione russa, lasciando aperta la possibilità di ulteriori trasformazioni e rotture rivoluzionarie."
In qualche saggio il tono diventa più lirico. Adriana Chiaia, nel suo testo dedicato alla collettivizzazione dell’agricoltura, richiamando il noto giuramento pronunciato alla morte di Lenin, commenta come in esso Stalin ribadisse "l’impegno del partito bolscevico a proseguire l’opera di Lenin nella costruzione del socialismo" e continua:
"Che non si trattasse di vuota retorica fu dimostrato dalla difesa pertinace della linea marxista e leninista che Stalin condusse per tutta la vita, guidando il partito bolscevico nei frangenti più difficili e nelle scelte decisive che, malgrado tutte le difficoltà esterne ed interne, ne caratterizzarono la linea politica e la sua attuazione pratica."
Un altro contributo che si muove sulla stessa traiettoria è quello del tedesco Kurt Gossweiler intitolato "Il revisionismo, affossatore del socialismo". La responsabilità principale di tutto quello che è successo in URSS è attribuita a Krusciov e alla sua denuncia del "culto della personalità" e dei crimini staliniani. Basta citare un sottotitolo per dare il senso della direzione di pensiero dell’intervento: "Come e perché il revisionismo ha potuto mettere radice e in definitiva riportare la vittoria sul marxismo-leninismo in Unione Sovietica e nei paesi europei suoi alleati?". La risposta, come è facile intendere, ci riporta ad argomentazioni che ebbero una qualche diffusione all’inizio degli anni ’60 nei gruppi che guardavano alla Cina di Mao e all’Albania come nuovi paesi guida del campo socialista dopo il "tradimento" sovietico. L’involontaria ironia dei curatori sta nell’aver inserito questo testo, in cui l’ultima cosa che interessa è "problematizzare", in un blocco di interventi dedicati ad "Alcuni nodi problematici della storia dell’URSS e del movimento comunista internazionale".
Ma torniamo agli interventi che sono più diretta espressione della corrente politica dell’Ernesto. Alessandro Leoni, si occupa in un breve saggio, del patto Molotov-Ribbentrop, ovvero l’accordo siglato nell’agosto del ’39 tra la Russia staliniana e la Germania hitleriana. Il patto, per questo autore, merita di essere approfondito perché "non sufficientemente analizzato dalla storiografia di sinistra, intendendo con tale riferimento quella che ha correttamente rifiutato ogni sia pur ambiguo rapporto con l’antisovietismo". Al riguardo la storiografia di matrice comunista avrebbe dimostrato una certa "reticenza" e un qualche "imbarazzo", dovuti - secondo il Leoni - ad una certa "debolezza psicologica"(!?) della cultura storica marxista. Questa "debolezza psicologica" testimonierebbe la "profonda influenza idealistica, addirittura moralistica, propria all’intero movimento comunista del ’900".
Non essendo toccato né da "debolezza psicologica", tantomeno da influenze "moralistiche", Leoni rivendica la correttezza della scelta della dirigenza sovietica di stringere l’accordo con la Germania sventando il tentativo - certamente auspicato anche dalle potenze capitalistiche occidentali - di dirigere verso Est le pulsioni aggressive dei nazisti. Se si applicano all’URSS staliniana i criteri propri della "realpolitk" internazionale basata sugli interessi statuali nazionali e della "logica di potenza" l’accordo con la Germania era del tutto legittimo. Ci si può comunque chiedere se sia stata davvero una mossa così felice.
In proposito citiamo gli interrogativi che pone Giuseppe Boffa nella sua Storia dell’Unione Sovietica, pur riconoscendo che i vantaggi del Patto per l’URSS furono "considerevoli":
"Sebbene manchi ovviamente di ogni riprova storica, l’ipotesi opposta - quella di un provvisorio isolamento dell’URSS - non può però essere considerata come sicuramente nefasta per i destini sovietici. Quando, meno di due anni dopo, Hitler avrebbe ugualmente attaccato l’Unione Sovietica, egli sarebbe stato padrone di quasi tutte le risorse d’Europa e avrebbe potuto concentrarle contro il suo nuovo nemico. Grazie al Patto riuscì per di più ad aggredire l’URSS di sorpresa."
Inoltre, ricorda ancora Boffa, sulla scelta del ’39, pesò anche l’assoluta necessità per l’URSS di guadagnare tempo per riorganizzare l’Armata Rossa, duramente colpita dalla repressione staliniana del ’37-’38. Interrogativi che probabilmente è opportuno non sollevare al fine di poter meglio "respingere ogni opportunistico allineamento all’opera demolitoria e demonizzante portata avanti, in questo ultimo mezzo secolo, nei confronti di un dirigente rivoluzionario, comunista, che s’inserisce a pieno titolo fra i grandi protagonisti della storia contemporanea" (Stalin, naturalmente), come si propone Leoni con il suo saggio.
Nemmeno un cenno viene dedicato ad un altro aspetto importante e problematico sollevato dal Patto Molotov-Ribbentrop: le sue conseguenze per il movimento comunista internazionale. I partiti comunisti furono costretti, per allinearsi alle esigenze dello Stato sovietico, ad abbandonare ogni riferimento alla lotta antifascista che era stato il tema principale dopo il VII Congresso del Comintern, trovandosi per due anni (fino all’attacco tedesco contro l’Unione Sovietica) isolati dalle altre forze di sinistra e democratiche. L’Unione Sovietica arrivò persino a consegnare ai nazisti alcune centinaia di militanti comunisti e antifascisti tedeschi che si erano rifugiati in URSS per sfuggire alla repressione. Immaginiamo che per Leoni affrontare questi fatti storici sarebbe prova di una sicura "debolezza psicologica" e di perniciose "influenze moraliste".
Ruggero Giacomini si occupa di "Stalin e Trockij di fronte alla politica dei Fronti popolari e alla guerra". I due combatterono negli anni trenta "una lotta drammatica ed epica". Per Trotsky - scrive Giacomini - "la politica di Stalin e dell’Internazionale nel nome dell’antifascismo e in difesa della pace gli apparvero sommamente conservatrici e antirivoluzionarie". Certamente egli avversò con forza la politica dei Fronti popolari, al punto da rompere con la maggior parte dei suoi seguaci spagnoli che, unificatisi nel Partido Obrero de Unificacion Marxista (POUM) scelsero la strada di stare dentro al Fronte pur cercando di radicalizzarne la politica.
La posizione di Trotsky sui Fronti popolari e la politica antifascista emersa dal VII congresso del Comintern fu settaria e sbagliata anche se la sua critica colse alcuni limiti reali di quelle esperienze, ma la ricostruzione che ne fa Giacomini è sommaria è poco aderente alla realtà storica. Si parla di cecità del fondatore della Quarta Internazionale di fronte al progetto hitleriano, di una sua identificazione tra "democrazia" e "fascismo". Giacomini, non sappiamo se per semplice ignoranza, o per poter contrapporre un Trotsky estremista ad uno Stalin realista e pienamente consapevole dei pericoli della guerra e del fascismo, non compie nessuno sforzo di ricostruzione del pensiero e dell’azione politica trotzkista.
Il rivoluzionario russo in esilio, distingueva tra il Fronte Unico, che prevedeva l’unità dei partiti operai, e il Fronte Popolare nel quale erano presenti anche partiti borghesi (come i radicali in Francia, e i repubblicani in Spagna), schierandosi a favore del primo e contro il secondo. Visione certamente schematica che alcuni suoi seguaci continuano a riproporre ancora oggi, ma che inquadra in una diversa dimensione la sua battaglia politica. La ricostruzione del confronto tra Stalin e Trotsky sarebbe stata più corretta se avesse incluso anche la polemica sulla politica tedesca del Comintern all’inizio degli anni Trenta ed in particolare la denuncia operata da Trotsky contro la disastrosa strategia detta della "classe contro classe", che attribuiva l’etichetta di socialfascismo a tutte le forze di sinistra non staliniane. Politica che contribuì alla vittoria hitleriana e alla sconfitta del più forte movimento operaio d’Europa.
Non si può tacere una vera e propria falsificazione attribuita, con una citazione che non abbiamo potuto verificare, allo scomparso storico "bordighista" Peregalli, sulla morte dei figli di Trotsky, Liova e Sergej. In proposito commenta Giacomini "il fatto che i figli di Trosky e suoi collaboratori siano scomparsi nella Germania di Hitler e la loro morte sia attribuita ad agenti stalinisti, è una spia dell’interesse che lo stesso Trotsky riponeva nell’evoluzione della situazione politica russa, che poteva essere direttamente seguita da un paese vicino come la Germania, con uomini di assoluta fiducia."
Dato che tutto il testo è teso a dimostrare non solo l’erroneità della politica trotskista negli anni ’30 ma anche la sua reale pericolosità per l’Unione Sovietica, il lettore sprovveduto potrebbe trarre sinistre deduzioni dall’idea che i figli e collaboratori di Trotsky scegliessero la Germania hitleriana per seguire da vicino gli sviluppi della politica sovietica. Il problema è che l’informazione è completamente falsa. Sergej non aderì mai alle idee politiche del padre e restò in Unione Sovietica quando Trotsky venne esiliato. Benchénon fosse mai diventato un oppositore morì nelle persecuzioni staliniane. Liova, fu effettivamente stretto collaboratore politico del padre, ma risiedette a Berlino solo prima dell’avvento di Hitler e morì invece in Francia in una clinica gestita da russi, in circostanze non del tutto chiarite.
L’alternativa di Deng Xiaoping
Concludiamo con un cenno all’intervento che ha una più diretta ricaduta sull’attualità politica, di cui è autore Fausto Sorini ed ha per oggetto il tema "Dalla NEP al "mercato socialista": tra passato e presente, note su alcuni problemi della transizione al socialismo". L’autore opera una rivalutazione della politica della NEP (la Nuova Politica Economica sovietica che nei primi anni venti seguì al capitalismo di guerra, reintroducendo elementi di iniziativa capitalistica) inquadrata in una idea della transizione al socialismo come processo secolare.
In Sorini c’è quantomeno un limitato accenno critico al modello sovietico laddove si afferma che il "le circostanze storiche eccezionali e le scelte prevalenti nel gruppo dirigente bolscevico dopo la morte di Lenin, imposero un modello di industrializzazione accelerata e di forzata collettivizzazione che si cristallizzò nei decenni in un modello statalista integrale". A questo modello viene proposto come alternativa "un processo di transizione nell’ambito di una economia mista, con un potere politico orientato al socialismo". Il propugnatore di questa alternativa è stato Deng Xiaoping, la cui strategia si impose nel Partito Comunista Cinese domo la morte di Mao e la sconfitta della famosa "banda dei quattro" (ovvero i maoisti radicali).
"L’idea guida - spiega Sorini - è che la crisi del socialismo reale è prima di tutto economica, di difficoltà a reggere la competizione economica e tecnologica con i paesi capitalistici più sviluppati". Quindi i paesi "socialisti" sopravvissuti al crollo dell’Unione Sovietica devono innanzitutto "introdurre elementi di forte dinamizzazione nello sviluppo delle forze produttive, imparando anche dalle esperienze più avanzate dei paesi capitalistici". I limiti dell’esperienza sovietica deriverebbero innanzitutto dal mancato riconoscimento della funzione del "mercato socialista" e dalla incomprensione che il processo di transizione ha tempi storicamente non prevedibili.
Corollario fondamentale di questa concezione economicista e sviluppista del socialismo è quest’altra considerazione centrale di Sorini :
"Si tratta inoltre di superare una concezione per cui la crisi del socialismo sovietico avrebbe sostanzialmente la sua origine in un deficit di democrazia politica (che pure vi fu). Il fallimento della perestrojka, da un lato, e la rivitalizzazione di esperienze di transizione come quella cinese o vietnamita, dall’altro, evidenziano invece la centralità delle questioni strutturali, del modello di sviluppo, delle forme di proprietà e di gestione dei processi produttivi, senza che ciò conduca ad una rimozione delle altre".
Questa visione propone almeno tre ordini di problemi:
1) il socialismo viene trasformato da processo reale di liberazione a metodo di sviluppo economico di società arretrate che compete con il capitalismo assumendone gli stessi fini.
2) con l’accantonamento della questione democratica si accetta come inevitabile il carattere autoritario e oppressivo di questo processo. L’esemplificazione pratica di questa impostazione è che in Cina ci si avvia ormai verso il riconoscimento di una crescente libertà di iniziativa capitalistica, ma con meno diritti sindacali e di sciopero di quelli concessi nella gran parte dei paesi capitalistici.
2) viene mantenuta una visione teleologica del socialismo. Che cosa distingue un Paese capitalista da uno socialista? Il fatto che chi è al potere in quest’ultimo Paese dichiara di essere impegnato a costruire il socialismo, per i prossimi secoli. Sulla base di questa visione vengono legittimati comportamenti che sarebbero fieramente avversati in un qualsiasi Paese capitalista.
Anche la visione di Sorini, quindi, non esce dal paradigma del modello staliniano. Il film è lo stesso solo che viene proiettato al rallentatore, per adattarlo all’allungamento dei tempi della "transizione".
Il quadro che emerge dalla visione d’insieme che gli esponenti dell’Ernesto danno del novecento sovietico, conferma l’incapacità di questa corrente di fornire una lettura critica di quell’esperienza a partire dall’assunzione, senza reticenze e falsificazioni, della realtà storica. L’atteggiamento assunto dall’Ernesto nella mozione congressuale (o forse si dovrebbe dire "ri-mozione" congressuale) rispetto all’esperienza del comunismo novecentesco, e in particolare di quella compiuta laddove ha conquistato il potere, è funzionale al mantenimento di una retorica identitaria ma di ostacolo ad affrontare seriamente il compito, arduo ma indispensabile, della rifondazione comunista.