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Disastri naturali...sempre le stesse tragedie, sempre le stesse banalita’
Publie le martedì 18 ottobre 2005 par Open-PublishingDazibao Governi America Latina Giorgio Trucchi
Popoli dimenticati che bucano lo schermo solo morendo...
di Giorgio Trucchi
Era successo 7 anni fa in Nicaragua con il Mitch e si è ripetuto tante volte un po’ in tutto il mondo.
In quei giorni, mentre l’ex Presidente Alemán continuava a ripetere che era solo propaganda politica dell’amministrazioine comunale sandinista per gettare fango sul suo Governo, più di 2 mila persone rimasero seppellite sotto il fango del Volcán Casita e molte altre morirono di stenti in attesa dell’arrivo degli aiuti.
Oggi se ne parla poco in Nicaragua e la tendenza è quella di dimenticare le colpe di quel Governo e di una struttura economica, politica e sociale che ancora oggi emargina centinaia di migliaia di persone nei luoghi più poveri, reconditi e pericolosi del Paese.
Il Volcán Casita si è ripopolato e la gente è tornata a vivere nei luoghi del disastro.
Quali alternative aveva?
Oggi ci troviamo ancora una volta di fronte a disastri che i mezzi d’informazione e le classi politiche dei paesi centroamericani imputano a "cause naturali". A morire, però, sono sempre le stesse persone e non c’è nessun tipo di maledizione divina per tutto questo e non si può nemmeno accettare il "que se haga la voluntad de Dios!"
Il rettore dell’Università Centroamericana (UCA) del Salvador, Jon Sobrino, uno dei pochi sopravvissuti al massacro dei Gesuiti da parte degli squadroni di élite dell’Esercito salvadoreño nel 1989, ha reso pubblica una testimonianza sul significato dei tanti morti di questi giorni per l’uragano Stan e Ileana Alamalla, attraverso l’Agenzia di notizie "Alai-Amlatina", ha dato la sua testimonianza e la sua verità sui disastri in Guatemala.
Vi lascio una sintesi di queste note dolorose che devono aprire gli occhi su quanto sta succedendo in questa parte del mondo abbandonata da tutti.
(Introduzione, traduzione e foto Giorgio Trucchi)
"LO STESSO E GLI STESSI": Le vittime di ottobre
Jon Sobrino - 9. 10. 05 - San Salvador
In Salvador ci sono sempre martiri da ricordare. Ci stiamo avvicinando a quelli della UCA in novembre, alle quattro religiose nordamericane in dicembre ed agli innumerevoli martiri di sempre.
Ma questo mese di ottobre ha portato altre vittime, prodotto della natura - tempesta ed eruzione di un vulcano - e dell’iniquità degli esseri umani. A San Marcos, un’intera famiglia, padre, madre e tre bambini, sono morti seppelliti dalla terra. Il commento che si è ascoltato è stato laconico ed abile: "Non li ha ammazzati la natura, bensì la povertà."
Su queste vittime e sui loro responsabili, su quello che esigono da noi ed anche su quello che ci offrono - se ci apriamo al mistero della vita - vogliamo fare alcune brevi riflessioni.
"Sempre lo stesso e gli stessi". Il popolo crocifisso.
Le scene di sofferenza e crudeltà sono impressionanti e la magnitudine dà i brividi. I morti sono più di 70, i disastrati, in un modo o nell’altro, superano i 70 mila ed i danni materiali possono essere equivalenti a tre o quattro volte il Bilancio nazionale.
La catastrofe si estende dal Messico al Nicaragua, e soprattutto in Guatemala.
Il villaggio di Panabaj è stato dichiarato "cimitero". Circa 3 mila persone sono morte sotterrate.
"Un villaggio maya giace sotto 12 metri di fango", diceva la notizia. Mentre scrivevo queste righe è avvenuto il terremoto in Kashmir. 30 mila vittime e due milioni e mezzo di disastrati.
Di fronte a tutto questo, la nostra prima riflessione è la seguente.
Queste terribili realtà non ci offrono nulla che non si sia già visto prima. Con sfumature diverse, dicono sempre la stessa cosa e cioè che nella maggior parte dei casi le vittime sono sempre i poveri.
Le catastrofi mostrano la povertà del nostro mondo e a sua volta, quella povertà è in buona parte causante delle catastrofi e delle sue conseguenze.
A tutto questo ci siamo abituati con naturalità, affinché la psicologia, l’insensibilità o la scarsa coscienza degli esseri umani possa convivere con la catastrofe. Senza timore si arriva a dire: "È normale che siano loro, i poveri, a soffrire, perché così vanno le cose. Anormale sarebbe invece se fossimo noi, che non siamo poveri, a soffrire questo tipo di disgrazie."
Quelli che soffrono nelle inondazioni, terremoti ed eruzione di vulcani - come quello di Santa Ana -, quelli che non hanno lavoro o vengono licenziati, gli immigrati clandestini e quelli che vengono espulsi dagli Stati Uniti, quelli che perdono le loro piccole case e le poche cose che possiedono, quelli che vedono morire i loro figli o i loro genitori, sono sempre gli stessi, i poveri. E frequentemente sono di più quelli che sono anche minoranza tra i più deboli: bambini, donne ed anziani.
La stessa cosa succedeva nei tempi della repressione e della guerra: la maggioranza dei torturati, desaparecidos, morti, erano poveri. Sarebbe necessario un Roque Dalton per potere cantare bene quella litania.
Lo diceva in modo preciso Ellacuría (rettore della UCA assassinato nel 1989 n.d.t.).
Ciò che caratterizza il nostro paese è il "popolo crocifisso". Ed aggiungeva due cose ancora più forti e lucide. Una è che a questo popolo gli strappano "la vita", che è la cosa più fondamentale e basilare. E l’altra è che questo segno che ci caratterizza è "sempre" il popolo crocifisso.
L’abbiamo già detto: con sfumature ed eccezioni, terremoti, inondazioni, crolli - e prima, torture, morti, sparizioni - si accaniscono sempre sugli stessi, i poveri. E producono sempre la stessa cosa, morte o vicinanza alla morte.
Questo produce indignazione - benché oggigiorno sembri che l’indignarsi non sia ben visto, benché i potenti tollerino lamenti e richieste di solidarietà, siano esse fatte con convinzione o per routine.
Ed esiste ancora meno l’indignazione quando si ripete, come nel nostro paese, che le cose vanno bene, o che siamo sulla strada giusta. Ma oltre ad indignare, la catastrofe fa pensare.
Si offre globalizzazione come promessa sicura di salvezza, ma questa globalizzazione, in contraddizione flagrante col concetto e la formulazione, quando succedono le grandi tragedie, continua ad essere assolutamente selettiva: sempre contro i poveri, mai - o raramente - contro i ricchi.
Durante il tsunami fu una sorpresa vedere soffrire europei e nordamericani, ma non sorprese che soffrissero i poveri dell’Asia. E durante il Katrina non sorprese che i ricchi abbandonassero New Orleans in jet privati, né sorprese che altri facessero lunghe code per ottenere benzina nelle strade. Né che molti altri, persone di razza nera, uomini e donne, continuassero a vivere tra le inondazioni nella parte povera della città. È la stratificazione naturale della società. Il "posto naturale" dei poveri , come diceva Aristotele, è la povertà.
Né la Banca Mondiale, né il Fondo Monetario, né il G-8, né quelli che proclamano la sfida del Millennio sono capaci di pensare e decidersi sul serio per una globalizzazione reale della vita. Non si tratta che tutti soffrano, bensì che nessuno soffra.
Quello che succede questi giorni è uno scandalo di lesa umanità.
Nelson Mandela, all’interno della presentazione dell’ultima relazione delle Nazioni Unite, ha detto che l’immensa povertà e l’oscena disuguaglianza sono flagelli di questa epoca, spaventosi quanto l’apartheid o la schiavitù lo furono in epoche passate.
Ed Eduardo Galeano, arrivato nel nostro paese in mezzo alle inondazioni, ha detto: "Spero che servano almeno per sottolineare che dobbiamo smettere di chiamarle catastrofi naturali. Sì, sono catastrofi, ma sono il risultato del sistema di potere che ha inviato il clima al manicomio".
"L’opzione per i ricchi?" Il peccato del mondo.
Se la tragedia non è il vero prodotto di catastrofi naturali e se la litania di "lo stesso e gli stessi" non è casualità, qualcosa continua ad andare molto male nel nostro paese.
Prima veniva chiamato peccato strutturale. I cristiani parlavano di "peccato del mondo", citavano i profeti d’Israele, Gesù di Nazaret e la lettera di un adirato Santiago.
Adesso ormai non si usa più molto questo linguaggio, nemmeno nelle chiese. Ed il mondo democratico occidentale, da un lato laico e secolare, con tutto il diritto, ha appena trovato - e non so se gli interessa - parole equivalenti che esprimano la tragedia e la responsabilità. E che nemmeno lo sfiorano. Per questo motivo si parla dei "meno fortunati", di "paesi in via di sviluppo". Eufemismi.
La tragedia di questi giorni dimostra, una volta ancora, l’ingiustizia strutturale nel paese.
Prima della tragedia, seguendo una pratica secolare, si andava avanti senza proteggere adeguatamente le strade al momento di costruirle, né si badava alle costruzioni, molto vulnerabili, dei settori più poveri. E ancora più scandaloso è il non aver bloccato i milionari che disboscavano e costruivano le loro case a loro piacere. Le promesse di prevenzione sono diventate carta straccia.
Adesso, davanti alla tragedia, bisogna domandarsi quanto hanno sofferto alcuni e quanto denaro hanno guadagnato altri, edificando in zone proibite dalla legge o dalla coscienza. E che cosa fanno i responsabili per ostacolarlo? Che fine ha fatto "l’opzione per i poveri", per "i più poveri", di cui parlava senza scomporsi l’ex presidente Cristiani?
Le catastrofi mostrano quello che tutti sanno. L’opzione di quelli che controllano il paese va in un’altra direzione: è l’opzione per chi ha denaro e per quello che dà denaro.
Optare per i poveri può rispondere a qualche vago sentimento etico o ad una strategia affinché la situazione continui a favorire i ricchi. Ma non c’è scelta e non si pensa ai poveri prima dei ricchi al momento di strutturare il paese.
Questo avviene da sempre e ha radici strutturali. Adesso, però, con le catastrofi affiorano altri mali congiunturali che sono anche ricorrenti. Certamente non è facile far conoscere la verità di tutto quello che è successo, ma i membri del governo non sembrano essere preparati a informare.
È un’espressione dell’irresponsabilità governativa. E ancora meno si vuole far conoscere la verità sulle cause di quello che è successo, perché allora uscirebbero allo scoperto i responsabili e i colpevoli.
La cosa più facile è dissimulare, esimere da responsabilità, esagerare quello che si è fatto per attenuare la catastrofe, promettere trasparenza, o semplicemente tacere, non dire la verità.
E tutto questo affinché le autorità, i politici e i ricchi facciano bella figura.
È l’occultamento della realtà, tattica molto usata dal presidente Bush, fino a che i feretri appaiono in televisione e la realtà non si può più nascondere.
Ma noi non dovremmo stupirci della sfrontatezza di non dire la verità.
Da una parte, dopo 25 anni, i governi non hanno ancora detto la verità sull’assassinio di Monsignor Romero, benché dodici anni fa la Commissione della Verità delle Nazioni Unite abbia già emesso il suo giudizio. E dall’altra parte si adorano pubblicamente e senza scrupoli i responsabili degli squadroni della morte.
Appare anche l’immoralità della propaganda di partito.
Il partito al potere (Arena, espressione dell’estrema destra oligarchica salvadoreña n.d.t) capitalizza la tragedia a suo favore. In televisione si offrono in catena - privata - microprogrammi del partito Arena, dai cinque ai dieci minuti, nei quali appaiono i suoi candidati a sindaco e a deputato consegnando vestiti, magliette...
Appare la prepotenza di alcuni grandi del capitale, fotografati sui giornali, consegnando assegni per i disastrati. Ignorano quello che diceva Gesù: "che la tua mano destra non sappia quello che fa la sinistra".
Ed appare la disumanizzazione dell’industria dei mezzi informativi. Alcuni di essi si disputano lo "scoop" , la foto del recupero del cadavere di una bambina. Il successo professionale, il ranking, interessano di più che comunicare il dolore della gente ed i suoi sentimenti.
Nonostante questo e con molta difficoltà, la verità sta affiorando: nella disperazione della gente che soffre, nelle persone sensate che si domandano con incredulità come è possibile avere così un paese. All’entrata della YSUCA (stazione radiofonica della UCA), raccogliendo ed organizzando aiuti per l’emergenza, un sacerdote di Sonsonate, lo ha detto molto bene. "Nella quotidianità passa inosservata, ma questa è la verità del paese: la povertà."
"Il cuore di carne". Solidarietà
In mezzo alla tragedia appare sempre la forza della vita, della speranza, dell’amore. E in queste occasioni assume la forma della solidarietà.
Molti collaborano per alleviare la sofferenza - la risposta alle chiamate della YSUCA e di altri è realmente impressionante.
Arriva gente con quintali di mais, fagioli - a volte li caricano semplici donne sulla testa -, zucchero, maseca, secchi di latte, centinaia di fagotti di vestiti, dozzine di materassini, coperte, medicine...
Sono persone semplici, normali, che si mettono immediatamente ad aiutare per fare arrivare l’aiuto.
Si avvicinano anche alcune persone con più mezzi economici con donazioni rilevanti. A volte.
Impiegati di imprese conosciute che hanno raccolto gli aiuti tra di loro. Un costruttore ha offerto addirittura una macchina per rimuovere le macerie. Ed arrivano medici, infermieri, suore... È l’aiuto ed il servizio che germoglia dall’ovvio, come ciò che ci mantiene con un minimo di umanità.
Molti rifugi sono gestiti dalle chiese.
L’aiuto governativo, quando arriva, arriva tardi ed è limitato ed a volte viene anche respinto dalla gente. Molte parrocchie e comunità, cattoliche e protestanti, comunità, suore, agenti della pastorale, pastori... si prodigano in questi giorni. E lo fanno con semplicità e con grande creatività, come ciò che permette loro di essere cristiani e cristiane perché sono umani ed umane. E lo fanno senza aspettare né dipendere molto da orientazioni che arrivano dall’alto.
Ci sono anche offerte di aiuto da fuori. Come una tradizione secolare, alcune arriveranno con efficacia ed integrità, frutto del dolore e dell’affetto. Sono "i solidali di sempre", persone ed istituzioni che anche in momenti di normalità aiutano nel lavoro comunitario, aiutano le istituzioni che proteggono i diritti dei poveri e quelle che analizzano e dicono la loro verità.
Questi gruppi della solidarietà vengono nel paese quando il popolo celebra Monsignor Romero ed i suoi martiri. È la solidarietà "salvadoregnizzata".
Altri aiuti arriveranno in modo più burocratico, con maggior interesse politico e con maggiori sospetti di non arrivare a destino.
Siano i benvenuti, almeno per le emergenze. Ma aggiungiamo un desiderio: che non si dimentichino che, se non serviranno a cambiare le nostre strutture ingiuste e ancora peggio, se le rafforzeranno e se ne approfitteranno per fare dei buoni affari, aiutare nelle catastrofi è una routine che non umanizza. E può essere una presa in giro. È come mantenere moribondo al povero Lazzaro vicino a un riccone, sempre più vivo ed opulento.
"Santità primordiale". Il senso eroico del vivere
Facciamo adesso alcune riflessioni che vadano oltre ciò che si può vedere e costatare.
Sono audaci. Accettarle o meno dipenderà dalla sensibilità e dalla fede, religiosa o umana, di ognuno e dal modo di guardare la realtà. E davanti alle vittime possiamo farle solo con il massimo rispetto.
Nei posti colpiti dalle catastrofi le scene sono strazianti.
Vedendo le vittime chiedendo, difendendo i loro figli piccoli, piangendo sui loro cadaveri, aggrappate ad una sedia - l’unica cosa che è rimasta loro - affinché non gliela porti via l’acqua, anche pregando, protestando per quello che il governo fa e non fa, vengono alla mente molte altre catastrofi.
Tra di noi, terremoti, repressione e miseria quotidiana; in altri posti, Niger, Sud Africa, i Grandi Laghi, madri e bambini affamati, con AIDS, percorrendo centinaia di chilometri in grandi carovane praticamente senza nulla. Ma può succedere - e succede - il gran miracolo: le vittime vogliono vivere, aiutarsi mutuamente per vivere. Ed allora, in mezzo alla catastrofe, appare dignità, amore, speranza, organizzazione popolare, religiosa e civile - soprattutto di donne - per far sentire la loro voce e mantenere la loro dignità. Nel Salvador è ben conosciuta la decisione delle vittime a rifarsi una vita dopo le catastrofi.
Non credo che ci siano parole adeguate per descriverlo, ma magari servano queste. "A questo desiderio di sopravvivere in mezzo a grandi sofferenze, il metodo per riuscire a farlo con creatività, resistenza e forza senza limiti, sfidando immensi ostacoli, l’abbiamo chiamato la santità primordiale. Paragonata a quella ufficiale, di quella santità non si dice ancora quello che in lei c’è di libertà o necessità, di virtù od obbligo, di grazia o merito. Non c’é motivo per essere accompagnata da virtù eroiche, ma esprime una vita del tutto eroica. Questa santità primordiale invita a dare e ricevere gli uni agli altri e gli uni dagli altri e la gioia di essere umani gli uni con gli altri"............
.....E gli anniversari dei martiri?
Queste riflessioni dovevano essere fatte per i martiri della UCA del 16 di novembre e sulle quattro religiose nordamericane del 2 dicembre. In quel tempo le vittime morivano violentemente per mano di assassini. Quelle di questi giorni sono morte, o in buona parte continuano a soffrire, per la negligenza, la corruzione, l’ambizione egoista, che lentamente erode il nostro paese. E di loro abbiamo parlato.
Ma non dimentichiamo che anni fa ci furono martiri perché c’erano vittime, e loro le difesero fino alla fine, dando la loro vita.
In questi giorni non c’è forma migliore per ricordarli che soccorrendo e consolando le vittime della natura, difendendole da strutture inette ed ingiuste, e da ogni egoismo. Fomentando giustizia e vita, e soprattutto speranza.
Guatemala: Cimitero senza popolo
Ileana Alamilla - ALAI-AMLATINA
Il Guatemala è arrivato al punto estremo in cui uno dei suoi villaggi, Panabaj, non solo è stato dichiarato inabitabile, ma viene considerato cimitero.
I lavori di salvataggio sono stati ormai abbandonati in questo villaggio.
Gli abitanti del posto, che si calcola siano più di 1.400 persone, sono rimasti seppelliti da una valanga di fango e pietre, rimanendo così seppellita la loro miseria, senza lapidi né epitaffi.
Con questo disastro, lo stato guatemalteco mette in evidenza la sua debolezza.
Non ha la capacità di regolare il "dio mercato" per farlo meno disumano, e non riesce nemmeno a convincere gli onnipotenti impresari e proprietari di tutti i beni, a fare degli aggiustamenti tributari che permettano un’accettabile ridistribuzione della ricchezza e pertanto deve accontentarsi di amministrare violazioni e testimoniare tragedie.
La concentrazione della proprietà e della terra in poche mani (secondo cifre di organismi internazionali, il 2 per cento della popolazione concentra il 72 per cento della terra) provoca che il 57 per cento della popolazione si trovi in stato di povertà ed il 21 per cento in stato di estrema povertà.
Il Guatemala è il paese più disuguale dell’America Latina. Dei 12 milioni di abitanti di questo paese "da cartolina turistica", 7 milioni posso contare solo su 2 dollari al giorno per sopravvivere.
È ovvio che famiglie in queste condizioni non possono abitare in posti sicuri, non hanno tetti decenti, e sono esclusi dai servizi basilari. In pratica non hanno futuro.
Lo stato e la società guatemalteca affrontano una grande sfida. Permettere che questa ingiustizia e disuguaglianza sia eterna o intraprendere azioni urgenti affinché la ricostruzione del paese non si edifichi sulle stesse basi di esclusione e discriminazione.
La solidarietà di ampi settori, sicuramente molto generosa, e la carità non sono la soluzione per costruire un paese che sradichi questo aberrante sistema che aggredisce la dignità di tutti gli esseri umani.
Non è casuale che sono sempre i settori vulnerabili, i poveri, gli emarginati, gli indigeni, gli abitanti di aree rurali, di zone marginali, che vengono colpiti vergognosamente dai fenomeni naturali.
La loro vita in un Paese come questo è un disastro e la loro morte chiude solo questo ciclo di fronte all’indifferenza di chi ha tra le sue mani il dovere di correggere questa situazione secolare.
Né il riadeguamento del Bilancio annunciato dal governo, né i milioni di dollari ed euro offerti dalla comunità internazionale sono la soluzione per evitare che i fenomeni naturali strappino la vita a bambini, donne, anziani e uomini poveri che portano sulle loro spalle secoli di indifferenza e infelicità.
Il dovere del governo è reincanalare le politiche pubbliche e la struttura tributaria per incominciare a garantire la ridistribuzione della ricchezza, benché debba scontrarsi con i settori economici più potenti.
La responsabilità sociale degli impresari è messa alla prova.
Le cifre di più di 600 morti e 1000 scomparsi (ma i numeri sembrano essere molto più elevati n.d.t.) sono una spina nel cuore per chi ha ancora un po’ di sensibilità sociale.
Oggi i disastrati sono le vittime costanti dell’ingiustizia.
Sono quella metà della popolazione guatemalteca che esige e merita una vita dignitosa, con il rispetto dei diritti inerenti a tutti gli esseri umani.
Il resto, è demagogia.